L’esperimento di Stanford: quanto può essere malvagio l’essere umano?

Suddividere le persone in base a connotati, usanze e comportamenti è la normalità sia nella società odierna sia in quella passata.
Film, libri ed esperienze personali ci portano a suddividere la popolazione in categorie, in base a caratteristiche fisiche, economiche o sociali.
Tra i membri di un gruppo si possono facilmente osservare comportamenti simili, che portano gli individui ad uniformarsi sempre più.

Nel 1970 un team di ricercatori diretto dal professor Philip Zimbardo della Stanford University realizzò un esperimento per studiare i comportamenti sociali. Zimbardo, per realizzare l’esperimento, si ispirò alla teoria di Gustave Le Bon sul comportamento sociale, detta deindividualizzazione, secondo la quale gli individui di un gruppo coeso, formando una folla, tendono a perdere la propria identità, la propria consapevolezza e il proprio senso di responsabilità, attuando meccanismi di anti socialità.

Zimbardo voleva scoprire se molte brutalità commesse dall’uomo fossero frutto dell’individuo o della situazione. Decise di indagare questo processo attraverso la realizzazione di un esperimento, dove fu riprodotto in modo fedele un ambiente in cui era possibile osservare al meglio i comportamenti individuali: il carcere.

Furono reclutati 75 studenti universitari che vennero sottoposti a interviste diagnostiche e test di personalità, per eliminare coloro che presentavano problemi psicologici, disabilità mediche, abuso di droghe e fedina penale sporca. Gli sperimentatori selezionarono solo 24 soggetti maschi, retribuiti con 15 dollari al giorno, appartenenti al ceto medio, equilibrati e attratti il meno possibile da comportamenti sadici.

Furono assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie.
I prigionieri vennero fin da subito trattati come dei reali criminali, poiché furono arrestati nelle loro case, senza preavviso e portati alla stazione di polizia locale, dove furono prese le impronte digitali, fotografati e inseriti in un fascicolo. Successivamente arrivarono al dipartimento di psicologia dell’Università di Standford, dove nel seminterrato vi era la finta prigione avente porte e finestre sbarrate, muri spogli, celle piccole e molto strette che avrebbe ospitato tre prigionieri e infine uno sgabuzzino ovvero la cella d’isolamento. I prigionieri furono obbligati a indossare divise sulle quali era applicato un numero di riconoscimento.
Le guardie, invece, indossavano uniformi, un fischietto al collo, un distintivo, occhiali da sole a specchio che impedivano ai prigionieri di guardare loro negli occhi, manganello e manette. Inoltre, fu loro concessa ampia libertà circa i metodi da adottare per mantenere l’ordine e far rispettare le regole, ma senza usare violenza fisica.

In breve tempo coloro che svolgevano il ruolo di guardie iniziarono ad adottare comportamenti aggressivi e brutali, come svegliare i prigionieri molto presto e contarli, obbligarli a svolgere compiti inutili e noiosi, vessandoli con parole o comportamenti ostili. Anche i prigionieri assunsero il comportamento tipico del detenuto parlando esclusivamente di questioni carcerarie per gran parte del tempo; inoltre alcuni carcerati assunsero il tipico ruolo del ‘canarino’, ricevendo dalle guardie diversi privilegi.

In pochi giorni si ebbero forti ripercussioni psicologiche sui partecipanti, poiché in quella situazione carceraria le finte guardie divennero sadiche e maltrattanti e i finti prigionieri mostrarono evidenti segnali di stress e depressione. Zimbardo dimostrò così il processo di deindivisualizzazione, mostrando come l’individuo diventi semplice pedina all’interno di un gruppo o una folla, assumendo spesso comportamenti violenti e autoritari.
La cosiddetta malvagità è quindi connotato personale o può spesso esser indotto da situazioni sociali avverse?

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