Musica 101 – musica per gli occhi

Lo scorso articolo introduceva alcune problematiche relative alla musica elettronica e alle difficoltà che tale mezzo pone a livello di possibilità compositive (concetto espandibile a tutta la musica colta del secondo Novecento), rendendo così tali brani musicali “di difficile digestione” per l’ascoltatore medio. Tuttavia, tali brani risultano essere di facile accesso quando sono accomunati a elementi extra-musicali: un brano di György Ligeti come “Atmosphères” può risultare quasi inascoltabile se preso da solo, ma quando inserito nella scena dello Stargate di “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick, ottiene tutto un altro significato. Come più volte accennato nel corso di questa rubrica, uno dei problemi della musica “colta” e intellettualistica è quello di uscire dalle convenzioni del linguaggio musicale ed essere così di difficile comprensione. Una delle possibili soluzioni per la “digestione” di tali repertori sta proprio nell’accomunare questi ultimi con l’elemento visivo, più facilmente codificabile. Quali sono, tuttavia, i confini di questa soluzione? Fino a che punto è possibile parlare di “musica per gli occhi”?

In questa premessa si è già delineata una realtà facilmente deducibile: la musica per il video. Il mondo della musica in associazione all’elemento visivo è un mondo altrettanto complesso, fatto anch’esso di convenzioni e linguaggi altrettanto definibili musicalmente (es. il ritmo del montaggio, l’orchestrazione degli elementi in scena, ecc.) che convivono con gli elementi sonori. Per fare qualche esempio, è noto che i più grandi registi concepiscano intere scene sulla base di brani, colti o pop, indipendentemente dalla presenza in scena della fonte sonora (basta guardare un film come “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino per rendersene conto); viceversa, esistono compositori (e altrettanti sound designer) come Ennio Morricone, Nicola Piovani, Hans Zimmer o John Williams che vengono incontro ai registi, commentando musicalmente le azioni sceniche o creando vere e proprie “musiche di rumori”. Tali esempi non sono una novità dell’era moderna: basta guardare alla densa storia del cinema muto, analizzando film come “Metropolis” di Fritz Lang o il surrealista “En chien andalou” di Luis Buñuel, per farsi un’idea. Se poi tutto questo non dovesse bastare, basta pensare al mondo dei cartoni animati, da “Tom & Jerry” ai classici Disney, di cui è sempre bene citare il visionario “Fantasia” del 1940 che accomuna repertori classici (da Johann Sebastian Bach a Pëtr Il’ič Čajkovskij) al mondo dell’animazione.

Dato quindi per assodato quanto detto, quanto oltre ci si può spingere? Non si è ancora parlato di opera lirica, dove libretti complessi come quello della “Tetralogia” di Richard Wagner che inizialmente prevedeva nel finale, come azione di grande impatto visivo (e simbolico) del “Crepuscolo degli Dei”, il radere al suolo il teatro per mezzo di un incendio. Non si è ancora parlato di danza, da quella più romantica del balletto (le ballerine di “Giselle”) a quella più provocatoria delle coreografie di Merce Cunningham. Eppure, finora si è affrontata la musica che “accompagna” immagini in maniera più o meno coerente con queste ultime: esiste quindi una musica “universale”, capace di evocare le stesse immagini in svariati ascoltatori? Sebbene la risposta a questa domanda sia negativa, esistono forme musicali capaci di “evocare” in maniera univoca determinati stati d’animo e figure: un esempio è dato dal poema sinfonico, dove i titoli delle composizioni e, più precisamente, i commenti dell’autore delineano “percorsi visivi” ben delineati. Si prenda ad esempio “Also sprach Zarathustra” di Richard Strauss, basata sull’omonima opera filosofica di Friedrich Nietzsche, di cui la ben nota introduzione evoca e allude all’avvento del superuomo, punto centrale di questa trattazione nietzscheana.

La “musica per gli occhi”, però, è un concetto che può anche essere analizzato in maniera opposta: il Novecento, in particolare, ha insegnato che anche la partitura può essere vista come opera d’arte in sé. Questo è il caso di opere come “December 1952” di Earle Brown, dove la partitura è basata su linee sparse sul foglio, più o meno spesse, da interpretarsi a discrezione dell’esecutore; una partitura molto simile, forse più “familiare” solo per la presenza del pentagramma, è quello della “Serenata per un satellite” di Bruno Maderna, dove improvvisazione e parti obbligate si intrecciano in una partitura di rara bellezza; un ultimo esempio, esposto al l’interno delle sale dell’Archivio Storico Ricordi di Milano, è la colorata partitura del “Raragramma” di Sylvano Bussotti. Si è potuto quindi analizzare diverse sfumature del “vedere” la musica, in una vera e propria moltitudine di diverse concezioni. Questa settimana, in occasione delle festività imminenti, vorrei quindi porre un quesito come regalo sotto l’albero: fin dove è possibile espandere i confini delle proprie concezioni, più particolarmente se inerenti all’arte? Tale quesito vuole essere un buon proposito per ciascuno di noi: impariamo a “sentire” con gli occhi, a “vedere” con le orecchie, a non vivere nel pregiudizio e nell’egoistica saccenza. Buone feste.

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