I colori del cattivo gusto

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Il cattivo gusto impera ovunque e in mille modi, è sempre stato e sempre sarà così. Oggi vorrei parlarvi di un suo aspetto particolare, riferito a Trieste, interessante per alcune implicazioni che vanno molto oltre la mera questione di gusto personale, spesso opinabile.

L’edilizia del centro di Trieste risale per larga parte al periodo antecedente il 1919, nonostante rilevanti incursioni di architettura di regime (1922-1943) e alcuni episodi, abbastanza rari nel centro, di funzionalismo più recente (1950-). Questo dato non è solo temporale: nel novembre del 1918, come sanno anche i sassi, Trieste passando all’Italia cambiò non solo appartenenza statuale ma anche orizzonte culturale. Nonstante si sia tentato più volte di sostenere una permanenza inalterata della cultura italiana anche architettonica, e italiana senza sbavature, nei cinque o sei secoli di appartenenza all’Austria, questa posizione è con tutta evidenza visiva assai difficile da mantenere. Ciononostante, opere recenti, anche di pregio (posso citare il pur ottimo Marco Pozzetto, nella sua storia dei Berlam) ribadiscono questa appartenenza visiva, vera solo in parte. Se da un lato è infatti vero che il Comune di Trieste, in mano per quasi tre decenni al partito Irredentista pur minoritario, tramite appunto figure come Ruggero Berlam si adoperò con ardore ideologico per imporre un lessico ‘italiano’ all’architettura (a volte con esito felice a volte meno: pensiamo a Palazzo Vianello, in piazza Oberdan, pessima imitazione dell’architettura umbertina e per contrastare come poteva le correnti d’oltralpe e moderniste (Liberty), è pure vero che non sempre ci riuscì, per forza di cose, e che comunque questo si riferisce a una stagione tutto sommato breve, grossomodo il ventennio prima del 1914 rispetto alla storia edificativa del centro teresiano, iniziata circa due secoli prima. Il resto dell’edificato, barocco e neoclassico, è spesso assolutamente in linea con gusti e stilemi del resto del defunto Impero asburgico, anche se questo sembra spiacere a qualche ambiente, per motivi che, nel 2019, davvero si stenta a comprendere del tutto.

Trieste viene restaurata e ridipinta su larga scala, accade ormai da vent’anni: chi ha o inizia ad avere i capelli bianchi può ricordare la Trieste di una volta, di un uniforme color grigio scuro fumoso, tendente al nero, appena illumato da rari bagliori della pietra di Aurisina. Persino i pessimi ‘restauri’ degli anni ’70, con le loro terribili finestracce moderne a una luce in alluminio color bronzo e le facciate in sorprendenti toni di marrone (il colore-simbolo di quel decennio) sembravano luminosi, in quel contesto. Dopo una stagione di colori pastello, tutto sommato in linea col gusto e il periodo di gran parte delle costruzioni anche se con un eccesso di vari gialli, si è passati negli ultimi anni a un diffuso gusto cromatico completamente alieno al gusto locale, all’epoca degli edifici e, in conclusione, anche al buon gusto.

Chi vive a Trieste ha già capito che qui si allude all’incredibile esplosione di arancioni che sta deturpando troppe facciate cittadine. Sembra che, nell’ansia di illuminare le facciate forse considerate troppo sobrie, specie per il gusto di chi viene da fuori ed ha altre città ed altre cromìe in mente, ci si affidi a colori squillanti nei toni del giallo e del rosso. Ecco le lunghe infilate di giallo-arancio, mandarino, zabaione, arancione, tramonto arancione o arancione tramonto, arancia arancio, spremuta d’arancia, arancia rossa, fanta arancio o aperol spritz, variamente combinate con effetti di difficile digestione e dalle quali pare non ci sia scampo. Le tinte più gettonate sono quelle, definite eufemisticamente ‘solari’, tipiche di alcuni casali toscani o laziali, ma ancor più tipiche degli interni delle tavernette casalinghe o degli agriturismi di cattivo gusto, quelli finto rustico di una ventina di anni fa, magari peggiorate con un effetto spatolato o graffiato. D’accordo: la colata monocolore marroncino-cremetta-beigiolino che affligge molte città italiane non ci ha (ancora) raggiunti, è vero. Ma nemmeno in quest’orgia di ‘solarità’ da cartellone pubblicitario di creme solari c’è molto da stare allegri.

La parte veramente sorprendente, è che l’Amminstrazione Comunale si è invece data gran pena per elaborare un Piano Colore per il centro storico. Lodevole iniziativa, utile ad evitare appunto di snaturare un bene culturale, se non fosse che il piano colore partorito , frutto si dice di studi accurati su intonaci antichi, sembra caratterizzato da presenze che lasciano perplessi e da ancor più sorprendenti assenze, tipo quasi tutti i toni freddi, quelli dell’azzurro e molti del verde, appena tollerati. Colori come il celeste pallido, il lilla, molti verdi, ecc., chiaramente ancora riconoscibili sugli intonaci storici (basta guaradare in alto, sotto la linda del tetto: molte case non sono mai state ridipinte da oltre cent anni) non sono stati ‘rilevati’ per qualche motivo. Se uniamo tutto ciò alla quasi assoluta indifferenza per la tipologia degli infissi -che anzi il Regolamento Comunale vieta espressamente di montare alla maniera storica originale (cioè a filo facciata, aprentisi all’esterno) la perplessità non può che aumentare.

E’ una perplessità triplice. Da una parte, quella del gusto, il consentire certe tinte è altamente discutibile. Ancora di più lo è il farlo a ripetizione, una accanto all’altra. Questa squillante uniformità di facciate (avete presente cos’è diventato l’angolo tra via Torino e piazza Hortis?) crea una noiosissima monotonia, che è l’ideale estetico da geometra di provincia di una volta, nel migliore dei casi. Da un’altra, è chiaro che i riferimenti culturali nell’ambito dei quali si formò il gusto di chi edificò quei palazzi sono mutati, e che gran parte degli abitanti che ne usufruiscono e ne ordinano la ripitturazione non li conoscono e condivono. Pazienza, nulla di male. Qui sta (starebbe?) però -appunto- il ruolo degli Uffici Tecnici, della Soprintendenza, cioè nel vigilare, consigliare e indirizzare i richiedenti permessi verso il mantenimento di un’eredità culturale ben definita. Questa eredità culturale, estetica è precisamente, in caso non ve ne siate accorti, quel che fa da catalizzatore per il turismo, in una città che non ha un decimo del patrimonio artistico delle altre città italiane, anche più piccole. Questo goffo travestimento offre che cosa, di preciso, e a chi? In ultimo luogo, se è vero che tutto ciò è frutto di una volontà ideologica (come credo solo in parte) e non già frutto solo di sciatteria e ignoranza (come invece ritengo molto più probabile, scherzi a parte), fingendo di crederlo domandarei: ma siamo proprio sicuri che questa colata di cattivo gusto, questo travestire la (ex) Bianca Trieste in uno stucchevole B&B Tosco-umbro di fascia economica sia economicamente redditizio e soprattutto faccia bene a una percezione dell’italianità, che certi ambienti tanto dicono di tenere a valore? Perchè guardate, ve lo dico francamente: la truffa si vede, la vedono tutti (non ho ancora sentito di turisti convinti di essere arrivati magicamente nel Lazio o che, nonostante lo sforzo profuso- abbiano mancato di accorgersi comunque dell’aspetto ‘estero’ della città) Il risultato ottenuto non è solo pacchiano e goffo: è soprattutto ridicolo. Molto. E il ridicolo non è amico di nessuna causa, mai, in nessun caso. Pensiamoci.

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