Musica al bar: il suono che viviamo (parte 1)

Eccoci qui, finalmente. Dove eravamo? Ah, sì. Stavo raccontando cosa mi è successo pochi giorni fa: mi trovavo in un negozio di vinili, vicino viale Rossetti qui a Trieste. Ci vado ogni tanto, quando non ho molto da fare, per spulciare qua e la fra i vari dischi. La cosa bella è che ogni volta assisto sempre a qualche conversazione interessante: c’era un signorotto che, parlando con il commesso, si lamentava di come i giovani «non potranno mai capire cosa si prova ad ascoltare davvero la musica, perché col digitale è tutto un casino, “freddo” e in più hai talmente tante cose a cui attingere che perdi il contesto del brano. Il disco è un percorso!».

Ha ragione. Obiettivamente parlando, se oggi vuoi ascoltare musica cosa fai? Prendi il telefonino, apri YouTube (o altri sistemi legali di streaming come Spotify), cerchi l’autore preferito e hai tutto a portata di tasca. Sono evidenti i lati positivi della cosa: in primo luogo, hai a disposizione moltissimi contenuti, declinati nelle più disparate versioni (in studio, dal vivo, in registrazione, ecc.), e inoltre il prezzo da pagare è qualche pubblicità o pochi euro: insomma, avere il mondo in tasca è obiettivamente figo per chi può permettersi di spendere 90 centesimi!

Il digitale ha cambiato il modo di ascoltare? Assolutamente. In meglio? Beh…per chi come me ha usato l’analogico, si ricorderà sicuramente quanto era frustrante cercare il proprio brano preferito all’interno di un’audiocassetta. Oppure il “cambio lato” dei dischi in vinile, quel piccolo momento di riflessione fra lato A e lato B, spesso completamente diversi. Questi piccoli rituali casalinghi hanno un valore ben più profondo di quello prevalentemente consumistico dell’ascolto: ti permettevano di sentirti parte di quel mondo rappresentato, poiché eri un “autostoppista” della galassia musicale. Entrare fisicamente in contatto con il mezzo non è poi tanto diverso dall’assistere di persona a un’esecuzione particolare, un po’ come faceva in religioso silenzio l’ascoltatore del ‘Rheingold’ di Wagner al primo Festival di Bayreuth nel 1876, no? Certo, è vero che anche il disco « […] è un blocco scolpito di tempo, ripetibile a seconda dei capricci del proprietario, un blocco in cui tempo e luogo possono anche non combaciare» scrive Evan Eisenberg nel suo ‘L’angelo col fonografo’, ma magari ne riparleremo.

Tuttavia, dando per assiomatico che il digitale rimane oggi una modalità pratica e alla portata di tutti, è evidente come esso tenda a frammentare non solo i contenuti, ma anche le persone: « […] ma se serve vi porto i dischi / così potrete ballare i lenti» cantavano Elio e le Storie Tese. Quella collettività suggerita dal rito dell’ascolto, che nel corso della storia della musica comincia dal gregoriano dei monaci e arriva all’Opera fino alla radio e oltre, è molto diverso dal ragazzo in metro con le cuffiette. Allora cos’è meglio? Nessuno dei due in realtà. L’importante, secondo me, è acquisire consapevolezza di ciò che si ascolta, in base ai mezzi e al contesto. Anche perché i problemi non finiscono qui…

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