La giusta via di mezzo

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Nei libri come nei film. Lacrime che piovono a dirotto sopra pagine colme d’inchiostro, come su insipidi e ormai freddi pop corn. Il protagonista muore e la storia giunge a un’amara conclusione, lasciando nello stomaco un nodo pesante, accompagnato da indescrivibili sensazioni d’angoscia. Eppure piace. Non sempre, non a tutti, ma spesso piace.

Perché?

Le teorie sono molte. Una su tutte? Il lieto fine, spesso quando forzato, infastidisce.
Non garantisce quella sensazione di affinità con la realtà che ci circonda, crea una distanza maggiore tra osservatore/lettore e schermo/libro. Ma non è l’unico motivo, chiaramente ce ne sono altri. Ho accennato al concetto di affinità, che in questo senso va inteso come il bisogno di riconoscersi nel racconto, nella storia. Aiuta a sentirsi meno soli, ad alleggerire il carico, e in questo le storie senza il lieto fine sono maestre.

 

Poi ci sono quelle storie, le altre. Un uomo e una donna (o due uomini, o due donne) che si incrociano e si amano, che superano improbabili peripezie fino a unirsi nel “per sempre” tanto agognato. E giù il sipario, applausi.
Realtà? Sono storie che strappano un sorriso, che fanno lasciare la sala o poggiare il libro pervasi da una sensazione di benessere. Ma quanto dura? Dove sono i problemi di tutti i giorni, le difficoltà, le rinunce? Spesso latitano.

È facile innamorarsi del lieto fine, ovviamente. Rappresenta una scatola contenente un sogno che tutti vorremmo coltivare, trasportare nella vita quotidiana, cullare e inseguire colmi di certezze. Diversamente, risulta un po’ più difficile affezionarsi all’amaro in bocca, quella sensazione di incompiutezza che nasconde, però, un retrogusto di perfezione. Come diceva Francis Scott Fitzgerald, citando “Il Grande Gatsby”:

“Gatsby credeva nella luce verde, al futuro orgiastico che anno dopo anno indietreggia di fronte a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa – domani correremo più forte, allungheremo ancora di più le braccia, e un bel mattino…”

Sono parole che difficilmente lasciano indifferenti. Va aggiunto che soddisfare uno spettatore “deludendo” le sue aspettative risulta essere sempre un compito più complesso, questa è un ovvietà. Eppure, anche in questo paragrafo è facile riconoscere i sogni di una vita reale, di un sogno reale, come se ci stesse parlando un amico conosciuto da poco, più che un attore pagato fior di quattrini.

 

Ma ora, parlando seriamente: ve lo immaginereste un Titanic dove Jack e Rose galleggiano abbracciati sopra la zattera? Non avrebbe avuto la stessa potenza. Probabilmente sarebbe stato un successo a metà.

 

E se la via perfetta fosse, come sempre, una via di mezzo? Prendo un esempio contemporaneo, recente, non unico ma sicuramente emblematico. Non a caso sto per parlare di una storia vera.

Unbroken è un film del 2014, prodotto e diretto da Angelina Jolie. La pellicola è la trasposizione cinematografica del libro Sono ancora un uomo. Una storia epica di resistenza e coraggio, rieditato poi col titolo Unbroken, scritto nel 2010 da Laura Hillenbrand, e racconta la vera storia di Louis Zamperini, atleta olimpico, durante la Seconda guerra mondiale. Non annoierò raccontando l’intera trama, ma in questa storia il protagonista, prima di giungere alla salvezza, attraversa un calvario incredibile fatto di guerra, sofferenza e sporadiche gioie. In parole povere, vita.

L’unica certezza, nei libri come nelle pellicole, è che non si riuscirà mai a mettere d’accordo tutti. Non esiste una formula perfetta, una storia in grado di carpire il consenso universale. Perché, mentre qualcuno cerca una finzione che profumi di realtà, altri cercano una realtà alternativa in cui rifugiarsi.

Forse, in fondo, è giusto accettare la soggettività del mondo in cui viviamo, imparando ad apprezzare ogni più piccola e relativa sfumatura.

 

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