La danza delle parole (elementi di psicanalisi): la paura

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La paura attanaglia ciascuno in vari tempi della nostra vita, ci attanaglia e impedisce di procedere, ci ricorda che abbiamo limiti o almeno ci rappresenta dei limiti fantasmatici che si agganciano a limiti vissuti nel reale, a limiti che l’educazione ci ha imposto, a limiti che ci siamo imposti come punizione per aver fatto realmente o fantasmaticamente cose che rappresentano per la società, allargata o familiare, una sorta di “delitto” o infrazione.
Massimo Meschini, nel suo libro “Per una clinica della parola” scrive: Il termine paura deriva dal latino pavor. Panico viene dal greco panikòs, aggettivo di Pan, il dio della natura che, soggiornando nelle solitudini più selvagge, spaventa gli uomini con la sua voce.
Secondo la mitologia il dio Pan, al tempo della battaglia di Maratona, parla a Filippide l’ateniese e gli suggerisce il modo di terrorizzare i persiani.
Fobia viene dal greco pho’bos: fuga, paura, panico, terrore, fuga, quindi comporta paura, ma anche mettere in fuga, correre verso qualcosa.
La paura è un indice dell’inconscio, dell’impossibilità di isolare il suo oggetto. Questa è la paura presa per la punta, lo scacco della conoscenza: non si sa di cosa si ha paura, non si sa come controllarla né come localizzarla. La paura è la sentinella della pulsione, di una impossibile gestione della parola, di uno scacco del fantasma materno. Sottolinea l’inconciliabilità del due, irriducibile all’uno, nonché l’esistenza dello specchio, oggetto inspeculare.
La fobia, anche attraverso l’evitamento, sottolinea come il corpo non possa entrare nella scena in cui agisce l’idea più ardentemente agognata. Il dettaglio rispetto al quale interviene una debordante paura di niente, assolutamente ingiustificata rispetto al principio di realtà, mette in risalto come l’immagine e il significante in questione non possano isolare lo spostamento da un debordante ritorno del rimosso.

La fobia infatti, per un verso rappresenta lo spostamento della paura – come in Freud, nel caso clinico del piccolo Hans (analisi della fobia di un bambino di cinque anni, del 1908) dove lo spostamento va dal padre al cavallo – per altro verso, attraverso l’angoscia eccedente, sottolinea che non si tratta della paura di qualcosa di realistico, di possibile, ma del ritorno di elementi inconsci di cui urge una traduzione, lungo la funzione di rimozione.
La paura presa per la coda si enuncia come credenza di sapere di che cosa si ha paura, erigendo tabù personali, familiari, sociali, a difesa dello status quo.
In questo modo la paura serve a convivere con il sintomo, isolandolo e scansandolo. La rappresentazione della paura diviene il principio in base al quale bisogna organizzare la normalità e il senso comune, conoscendo che cosa è prescritto e che cosa è proibito dalla morale.
La paura dovrebbe confermare e giustificare la sottomissione all’autorità morale perché il pericolo incombe e la vita è piena di minacce. Si coniuga così il principio mafioso proprio all’istituzione materna, che tiene sotto tiro la libertà della parola con il principio della paura: “Devi avere paura di quel che eccede il luogo comune. Devi sottometterti al gruppo ipnotico, altrimenti subirai l’ostracismo, l’esclusione, il rifiuto della massa custode dell’archetipo fondamentalista e naturalista.”
Paura contro la novità contro l’invenzione, contro l’arte. La paura come psicofarmaco per guarire dal debordamento, dalla follia, dall’inconscio. Paura come limite morale contro una trasgressione ipotetica. Paura dello sbaglio e dell’errore: “Devi eseguire il compito senza commettere infrazioni rispetto a ciò che è necessario”. Paura salvifica, benefica, materna.

Paura che serve alla codificazione del senso, alla moralizzazione del sapere, alla totalizzazione
della verità. PAURA DELLA MORTE, MA ANCHE PAURA DELLA VITA. Religione della paura per difendersi dall’amore e dalla sessualità, per pararsi dalla differenza.
Il luogo comune tenta di fare della paura il segno che indica dove è necessaria la rinuncia.
Scambiata per una difesa, la fobia si trasforma nella cinta di protezione a salvaguardia dell’immobile, del tradizionalismo, contro ogni novità, a tutela di un principio di verginità sempre pronto ad essere violato dallo stupro, malefico. La fobia non sarebbe l’accentuazione del movimento come indica l’etimo, ma darebbe la direzione della fuga con cui scansare le difficoltà: la fuga si presenta come facile soluzione verso il familiarismo protettivo, porto sicuro conto il rischio della differenza e della trasformazione.
Nel suo saggio “Nicolò Machiavelli “Armando Verdiglione definisce la paura come “la normalizzazione della paura”; paura ispirata al principio della morte, paura come sottomissione al principio della sostanza e della calma, della morte bianca, della normalizzazione. “Per rimanere soggetti bisogna avere paura della morte, della severa minaccia morale che potrebbe annichilire!”.
Ma, contrariamente a quel che recita il luogo comune, la paura della morte è proprio ciò che sottolinea l’inaccettabilità del principio di morte, l’inestinguibilità della vita nel suo procedere dalla libertà, dall’apertura, dal rigetto, verso l’infinito.
Ora, come interviene la paura nel nostro quotidiano? Spesso nel denunciare una mancanza che ci si attribuisce, un limite, appunto, che ci impedirebbe di “essere” come si dovrebbe essere. In questo modo si fonda un luogo comune che definirebbe il “come” si dovrebbe essere, la misurazione, il metro da “usare” per confrontarci con la “giusta misura”. Paura quindi di non essere “all’altezza”, “al pari”, al “passo” di uno o più modelli ai quali conformarci: la “giusta” madre, la “giusta” figlia, donna, la “giusta” moglie, la “giusta” professionista, la “giusta” artista.
Spesso si agganciano a queste paure degli eventi che hanno rappresentato scene in cui si esaltavano delle presunte mancanze per la società o familiari, questioni da ridecifrare per poter essere ascoltate nella loro particolare logica, ma che invece ritornano come “segno” di una vera mancanza sulla quale imperniare le fantasie di mancanza e relativa conseguente paura di non poter più essere degna di desiderare e di ammettersi.

La questione si ripropone accentuata quando le pulsioni rimosse, che non hanno trovato modo di scriversi, e che invece hanno portato a rappresentazioni di ciò che chiamiamo “errori”, sbagli”, sotto pressione del Super Io, ci impongono di essere ciò che i nostri genitori voleva che fossimo, o meglio di seguire la legge che abbiamo introiettato conseguenti ai loro insegnamenti e fatto diventare nostra.
Sappiamo che per il principio del piacere queste tensioni devono essere mantenute a livelli bassi, perciò una grande percentuale di queste energie, distruttive, (pulsione di morte) verranno incuneate, dall’intervento della pulsione di vita (sessuale), verso l’esterno divenendo pulsioni sadiche, in variazioni anche sessuali/genitali o verso l’esterno divenendo pulsioni masochistiche (impedendo anche il godimento sessuale).

Queste pulsioni vengono riagganciate a situazioni legate alla primissima infanzia, quando era in atto il complesso edipico, (ovvero il desiderio sessuale verso il genitore), rimettendolo in moto.
Si crea così una sorta di cortocircuito nel quale il senso di colpa si aggancia alle fantasie erotiche, fantasie inconsce incestuose, spesso trovandosi a ripeterle in storie trasgressive con conseguente aumento del senso di colpa. Si può intendere, in questo modo, come molti aspetti del masochismo procedano con la rappresentazione della paura, della fobia e in un feroce tentativo di normalizzazione della propria vita. Tentativo ovviamente che fallisce.
La paura che diviene normalità è l’aspetto più comune in queste situazioni: si rappresenta come tentativo costante di protezione e di evitamento di qualsiasi variazione, come se l’immobilismo fosse la fonte della sicurezza per sé e per i propri cari.

Si crea quel cerchio nel quale qualsiasi variazione, effetto delle cose della vita, del tempo e degli eventi scrittura delle pulsioni, divengono il male da eliminare perché portatore di cambiamenti considerati violenza, frattura del ritmo del pendo che scandisce ciò che di deve o non si deve fare. Ma la violenza è del tempo, non della variazione indice di vita, la violenza non è attribuibile alle scelte, ma alle non scelte che condannano al tempo eternizzato e circolare dove tutto è, apparentemente, sempre uguale e congelato.
Le cose cambiano, le situazioni cambiano, le persone si trasformano, evitare e negare questo è avviare la propria vita e quella di chi ci circonda al principio del piacere ovvero alla morte.
Evitando la variazione, che invece è parte di ciascuna crescita e elaborazione, si fonda una scena statica nella quale inserire la famiglia, le proprie relazioni, dove ogni giusta richiesta pulsionale viene rimossa in favore della quiete familiare, per paura di turbare la staticità, vissuta come ripetizione dell’identico, abitudine rassicurante, che permea la sfera nella quale ci si ripara o meglio si tenta di ripararsi dalle richieste pulsionali.

La maggior parte delle energie quindi è impegnata a difendere sorretta apparentemente da validi morivi strutturali e morali, la situazione nella quale vivere il proprio masochismo e conseguente rinuncia assunta e resa così consapevole.
Peccato che la rinuncia sia si, assumibile, tramite la rappresentazione del sintomo, ma non consapevole in quanto non si sa a cosa si stia rinunciando, se non in una fantasia di saperne.
Agganciati a questa gestione presunta della propria pulsione si trascorrono gli anni nell’attesa di un miracoloso evento che potrebbe spazzare via magicamente le problematiche .

Spesso investendo sulla fantasia, come via parallela dove le pulsioni troverebbero finalmente il loro appagamento.
L’atemporalità dell’inconscio che quindi non avverte il tempo cronologico, ma solo quello logico, non lascia scampo ai rimandi e brucia in questo modo le occasioni di proseguimento dell’esperienza vita facendoci rimanere agganciati al sintomo e alla sua rappresentazione del limite e dell’impossibilità.
Se interviene l’elaborazione del sintomo invece, ovvero le scrittura della pulsione rimossa, avviene la distinzione tra passato e presente lasciando cadere la sovrapposizione delle scene, permettendo di ascoltare nell’attuale ciò che si continua inconsciamente a sovrapporre al tempo passato.
Occorre giungere né al passato, né al presente, né al futuro, ma all’Altro tempo che ci concerne, il tempo dell’elaborazione nel quale il passato il presente e il futuro sono simultaneamente in atto e l’infinito è attuale.
Il tempo in cui ciascuno, grazie alla accettazione delle proprie pulsioni e alla loro scrittura, diviene finalmente Altro da sé e non deve più incorrere in identificazioni illusorie con l’altro.
Tempo nel quale si attua finalmente l’ascolto, senza temerlo, senza trovare alternative o un fare che riempia, bensì un fare conseguenza dell’elaborazione e effetto di un intendimento, lasciando cadere la moralizzazione e la colpevolizzazione per giungere, anziché ad una soluzione, ad una totale assoluzione, assoluzione che dissolve l’idea di sostanza male /bene, buono/cattivo , giusto/sbagliato, poiché le cose sono inconsce che, come tali, non trovando ascolto hanno reinventato vie alternative e spesso trasgressive e, proprio per questo, vanno finalmente, attraverso il sintomo (la paura, il presunto limite, la rinuncia, il senso di colpa e la sensazione di inadeguatezza) ascoltate nella loro urgenza e assoluta esigenza, per far loro trovare una via legittima, non più trasgressiva, di scrittura nel reale con conseguente soddisfazione.

Roberta de Jorio ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.

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