Diario d’artista: cos’è dipingere

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Sono stato educato all’Arte; di questo devo essere grato alla mia famiglia. Ma ho dovuto capire da solo cos’era.
Ricordo la prima volta a Parigi, a vedere il museo d’Orsay, aperto al pubblico da poco.
Non avevo mai visto le opere degli impressionisti dal vivo ed ero emozionato come un bambino nell’entrare; sentivo di varcare un luogo sacro, di essere alla presenza di qualcosa di grande: Renoir, Monet, Cezanne, Sisley, ed il grande Manet che aveva scandalizzato le grandi mostre dei Salons parigini con il suo “Dejeuner sur l’herbe”…

Prima di partire, mio padre, pittore e soprattutto padre\padrone, probabilmente geloso nel suo studio di palazzo veneziano, me li aveva denigrati in tutte le maniere: “I francesi? Ne vedi uno, li vedi tutti; sono tutti uguali…con le ombre blue…” mi aveva detto: “Vedrai…Perdi solo il tuoi tempo…”.
Ma non fu così: vissi delle ore indimenticabili, al limite della commozione, ed inaspettatamente mi trovai a piangere di fronte all’ ‘Incantatrice di serpenti di Henri Rousseau, detto il Doganiere, dinanzi alla sua arcaica grazia e mistero.

Andò così: non mi fermai ai maestri impressionisti, ma assaporai un po’ tutto quello straordinario luogo, dove così tanta, tanta stupenda arte era stata racchiusa in un unico scenario. Non so quanto vi rimasi; ma sicuro ore ed ore, cercando all’inizio di rimanere solo di fronte alle opere, scansando le immancabili frotte di turisti che assiepavano le transenne. Era assai difficile crearsi un angolo proprio, in quel brusio costante, in quell’andirivieni di persone, ma alla fine mi stupii (era la mia prima volta) di scoprire che questa voluta intimità veniva a crearsi comunque poco a poco, indipendentemente se fossi solo o no: come una magia, una bolla di silenzio, una magica concentrazione che germinava in me, solo in me. Tra la mia anima, la mia coscienza e le opere presenti.

Fu in quell’attimo che capii che io e l’Arte saremmo stati assieme per sempre: incominciai a guardare quei quadri, quelle statue, come se vedessi una mostra per la prima volta: avevo seguito già decine e decine di esposizioni, di inaugurazioni, ma non mi era mai capitata questa sensazione, così forte e viva.
Potevo quasi parlare con quelle opere, quasi sentire una loro voce, riuscivo a scorgere dettagli e colori con una percezione che si avvicinava, oltre alla vista anche agli altri sensi, al gusto, ad una sensazione epidermica, tattile. Era magia: magia pura; come una specie di trance che mi aveva preso, da cui non volevo staccarmi e che, viceversa, temevo finisse da un momento all’altro.

A quel tempo non sapevo che una volta raggiunta, quella cosa, non se ne va più. Gironzolai felice con un sorriso per quel bel museo, con un sorriso negli occhi e sulle labbra, pensando finalmente che l’uomo non era solo capace di guerre e di inutili, insensate atrocità, ma anche di creare bellezza, pathos, astrazione oltre ogni limite, di comunicare sentimento ed aggiungere sensazioni al mondo.
Fu un’esperienza magnifica che mi cambiò per sempre.

Quando tornai a casa, entrando nello studio di mio padre, come avevo fatto centinaia di volte, provai ancora quella sensazione: una sorta di reverenza, di rispetto per quello che chiamiamo Arte e soprattutto per la pittura, disciplina alla quale ero accanto da sempre.
Persino quel luogo, così disordinato, dove pile di colori usati, contorti e spremuti malamente si univano ad altrettante pile di sigarette fumate per metà, a libri d’arte maltrattati, scuciti dalle loro belle impaginazioni, tra le innumerevoli foto di dipinti altrui, persino in quel luogo mi scoprii ad entrare quasi in punta di piedi, perché lo sapevo fucina di arte e bellezza.
Fu una cosa sconvolgente, come rileggere un libro o rivedere un film con occhi completamente diversi.
In seguito – non potevo saperlo – quella cosa mi seguì, facendomi provare una simile attenzione e rispetto, ogni volta che incontravo delle vere opere d’arte e soprattutto quando ne conoscevo l’artefice: sentivo di provare una specie di ringraziamento verso gli artisti che sapevano infondere una linfa vitale e creativa al mondo, una specie di stima e solidarietà nei loro confronti.

Poco per volta questa sensazione divenne familiare, al punto tale che la provavo anche di fronte ai miei lavori meglio riusciti e soprattutto sentivo una specie di rispetto per il luogo di lavoro e per quello che facevo, come fossi, in qualche modo, stato scelto per un compito importante.
Quel rispetto per l’Arte e per chi la fa, la comunica, la comprende e la espande, non lo persi mai da quei giorni: crebbi e divenni adulto, ed imparerai il piacere, il bisogno di dipingere, di disegnare, di creare qualcosa, ogni giorno; di dare il meglio e di migliorarmi.
E dal quel giorno decisi che questo era importante; e persino sopportai in miglior maniera i bruschi insegnamenti del “padrone” dell’Atelier e del suo irascibile modo di passarmi la sua conoscenza con rabbia e scontrosità.

La pittura, come le altre arti, è tutto questo: è creare e comunicare sensazioni; comprese anche l’ansia, la malinconia, persino l’orrore ed il simbolo.
È una strana cosa in fondo: come un’onda, uno spirito, qualcosa che ha bisogno di manifestarsi e lo fa attraverso persone, corpi, occhi, mani, attraverso una fisicità che non possiede ma di cui si serve, in una forma simile alla medianità: gli artisti sono protagonisti ma anche, e soprattutto, tramite di questa onda di emozione: essere consci di questo è già un grande obbiettivo per un artista; perché gli dà la forza per continuare nel suo percorso, attraverso mille difficoltà.
E – come ho già detto – la pittura, per poter continuare a vivere, oltre ai suoi esecutori, ha bisogno del pubblico, dei suoi spettatori, di altrettante sensibilità individuali che si fanno rapire, emozionare dai suoi strali di incantatrice.

Quel giorno, ormai così lontano, imparai la religiosità della pittura, del suo eseguirla, capirla, conoscerla, viverla e proteggerla; la sacralità di qualcosa che va oltre il nostro sapere, che si avvale di tecnica e rigorosa ricerca, piacere visivo ed emotivo, in un continuo modificarsi nella sua espressione terrena: dipingere ed innamorarsi di un dipinto, sono la stessa cosa: due facce della stessa medaglia: eseguire, creare e comprendere sono un tutt’uno; qualcosa che ci unisce ed eleva, che ci migliora ed espande, in cui superiamo limiti, schemi, nazionalità e pregiudizi ed alla fine ci trasmuta in qualcos’altro, in una dimensione dove finalmente ritroviamo quella parte migliore, forse divina, che alberga in ognuno di noi.

Roberto del Frate ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.

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