Mario Scarpati: l’arte dell’incisione

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Mario Scarpati Mario Scarpati incisore napoletano, trasferitosi poi a Trieste, ci ha aperto le porte del suo mondo per raccontarci la sua arte.

Lei è nato a Barra in periferia di Napoli da madre casalinga…

Sì, madre casalinga e padre ferroviere, e pure aviatore!

Ed è il secondo di tre fratelli…

Tre fratelli chiamati i personaggi dell’apocalisse: eravamo tutti e tre dei personaggi un po’ strani (sorride).

Ma avete tanti anni di differenza o siete vicini?

Due anni di differenza.

Che cosa si ricorda degli anni della guerra?

Ricordo che i nostri amici americani bombardavano dappertutto; mentre gli inglesi cercavano di colpire gli obiettivi. Gli americani erano dei bravi ragazzi, chiamati liberatori, però hanno combinato pasticci in tutto il mondo.

Ma i bambini potevano lo stesso giocare per strada, erano liberi, oppure si tendeva a stare chiusi in casa?

No, bisognava uscire spesso e volentieri; l’allarme era continuo, e si correva. Si doveva andare fuori, in campagna, perché c’erano i tedeschi che ci inseguivano. Per la verità, non avevo tanta paura, rimanevo addirittura a controllare la casa: in quel periodo, se la si lasciava incustodita, si rischiava che altre persone venissero a metterci le mani. Eh…un periodo durissimo!

Il sogno di Napoli puntasecca 2008 - ScarpatiE come veniva vissuto?

Tutti eravamo sfollati, uno in un paesino, uno in un altro, fra Benevento, Caserta. Eravamo tutti divisi: non si poteva stare insieme. Poi uno moriva in un posto, uno in un altro. Era tutto un disastro! Ricordo, che quando avevo quattro anni, c’è stata pure l’eruzione del Vesuvio.
Quindi gli aerei americani bombardavano, mentre il nero del Vesuvio era notte e giorno.
Adesso ci sono i terrorismi politici e, per conto mio, è ancora peggio: una volta, perlomeno, c’era la speranza, ora, invece, quelli che detengono il potere non lasciano crescere i veri intellettuali; questo perché viviamo in una civiltà intellettuale, che privilegia i dilettanti, specialmente nell’arte, dove ora c’è una crisi totale.

Quando si è avvicinato all’arte?

Mi sono avvicinato quando avevo appena cinque-sei anni: le bombe cadevano dall’alto e, spaccando le mattonelle, creavano delle incisioni. Allora ero un ragazzo e mi soffermavo a guardare queste incisioni con il lumicino: non bisognava accendere la luce. Le mattonelle che si spaccavano davano dei segni fantastici! Poi la natura ha voluto che io scegliessi l’incisione, attraverso i segni.

È stata sua mamma ad iscriverla all’Istituto d’Arte F. Palizzi di Napoli?

Sì, nel settore dei metalli. Ero affascinato dal rame.

Cosa mi dice delle lezioni?

Nella sezione dei metalli eravamo in otto con un laboratorio enorme. Avevamo tre maestri eccezionali, ricordo: Tomai, uno scultore famoso, amico tra l’atro di Dudovich; Tomai parlava in russo o in francese quando non voleva farci capire qualcosa. Erano tutti dei bravissimi artisti. In particolar modo Napoli ha avuto una grande tradizione legata alla scultura, dall’arte greca in poi. Ho avuto degli insegnanti straordinari che mi lasciavano disegnare quanto volevo.

In riva al mare acquaforte1958 - ScarpatiQuindi c’era più pratica che teoria?

Sì, più pratica; per quanto riguarda la teoria: si leggevano quei pochi testi di critici come Ferdinando Bologna, Lionello Venturi, storici di una certa levatura. Adesso, invece, abbiamo i “critici domenicali”, frettolosi, che dicono che tutto è arte…

Quando invece si è avvicinato all’incisione?

All’incisione mi sono avvicinato per non cesellare più; con il bulino ho scoperto che facendo un graffio veniva fuori ciò che avevo in mente; e poi con la puntasecca lo perfezionavo. Da allora ho cominciato a incidere direttamente, a disegnare sul rame. Avevo appena diciotto anni.

Come nascono i suoi disegni?

Generalmente, se riesco a memorizzare dei soggetti, riesco anche a vederli direttamente sul rame; questo se ho creatività, se non vedo niente, o se non c’è nulla del sociale che mi colpisca, lascio stare tutto: è inutile fare delle cose Pagina erotica puntasecca 1976 - Scarpatise non vengono.
I temi sociali, le tragedie napoletane mi hanno da sempre interessato molto: erano lo spunto per la realizzazione dei miei lavori. Tutto ciò che vedo, poi lo trasformo.
Oggi, invece, si tende a fare cose diverse dalla realtà. Naturalmente la sola realtà non serve: bisogna anche trasformarla, altrimenti si rischia che diventi un fatto puramente illustrativo. Però anche esagerare, come fanno, soprattutto, negli Stati Uniti, dove gli artisti mettono, per esempio, una bottiglia e un pezzo di carta, facendoli passare per arte, mi sembra eccessivo.
Dalla Pop Art in poi, siamo arrivati al punto che ogni giorno nasce un movimento, di cui non c’è più un’intesa culturale vera. Nel Seicento c’erano sette-otto artisti importanti da Salvator Rosa fino all’inizio di Goya e poi Rembrandt; nel Cinquecento va ricordato Dürer. Tutta una sequenza di artisti; erano pochi, ma di grandi valori. Oggi, invece, ogni giorno ne nascono tantissimi con la pubblicità, che è un tranello, un’aggressione.

Una volta c’era più culto per l’arte; adesso è tutta una questione commerciale…

Sì, c’era più culto, e c’era addirittura una magia. Poi lo studio dell’anatomia era importantissimo, come lo è per un medico-chirurgo. Oggi, invece, viviamo in una società mercificata, dominata dal potere, che sceglie i suoi amici “dilettanti”. Io ce l’ho con il dilettantismo, perché i dilettanti disturbano, anzi, sono quelli che fanno più danni.

Lei dopo aver fatto l’Istituto d’arte ha anche insegnato in giro per l’Italia…

Appena uscito dalla scuola, a ventitré anni, ho cominciato ad insegnare.

Che effetto le ha fatto passare dalla parte dell’insegnante?

Il piccolo macellaio puntasecca 1959 - ScarpatiMi ha fatto capire che bisognava lasciare ai giovani una certa libertà; libertà nel senso di creatività. Una volta che imparavano a fare un fiore, una mano, un paesaggio, a capire come è strutturata la natura, lasciavo a loro l’interpretazione; non ho mai cercato di insegnare loro quello che facevo, ma ho cercato di capire quello che loro volevano fare, perché ognuno ha la sua anima.
Lasciavo molta libertà, creatività, senza tralasciare le basi, l’anatomia; cercavo di trovare i canali giusti.
Un giorno ho fatto volare un gufo in classe, perché volevo che disegnassero il movimento: una bottiglia ferma tutti riescono a disegnarla. Io cercavo sempre il movimento.
Ricordo che un’altra volta è venuto un musicista in classe e ha iniziato a suonare il suo violino. Altre volte ho fatto venire il beccaio con un pezzo di agnello per le lezioni di disegno dal vero. Io amavo la realtà.

Tra nord e sud c’è una differenza nel concepire un’opera d’arte?

Forse c’è questo: essendo il nord più industrializzato, tutto ruota attorno a questioni economiche, e i giovani si concentrano più su questo aspetto. Mentre, al sud c’è una maggiore creatività, specialmente nella scultura. Mi ricordo di uno scultore bravissimo, che non è mai emerso; era bravo, intelligente, si chiamava Nardulli. Lui riusciva a scolpire da una pietra l’immagine di una persona che guardava.
Il sud ha avuto anche una tradizione antica, legata alla Grecia, alla scultura; poi a Napoli l’attività culturale è sempre stata fiorente. Inoltre c’era più povertà, e quindi, quando c’è più povertà, c’è più esigenza di creare, di raccogliersi. Oggi, nel mondo veloce, uno già a vent’anni vorrebbe fare una personale. E alla fine viene fuori che non c’è più una cultura…

Non c’è neanche più esperienza…

Non c’è esperienza, e non parliamo poi delle gallerie, dove i galleristi sembrano finiti in mano a persone incompetenti. Una volta c’erano i grossi collezionisti.
Per esempio, tanti anni fa, il Conte Lionetta di Napoli mi commissionò una Madonnina su una lastra di argento; e io feci la Madonnina di Città del Messico in cesello. Oggi la gente non sa più apprezzare l’arte. Ci sono pochissimi cesellatori, tanto che sono molto richiesti. Una volta, dall’Istituto d’Arte di Napoli ne uscivano quattro o cinque, adesso pare che nessuno voglia più perdere tempo con il bulino.

Avanguardia puntasecca 1982 - ScarpatiOggi tutto è molto superficiale…

Sì, tutto è superficiale e senza penetrazione. Per esempio, io accetto l’arte come visione, ma l’immaginazione è importante per poter trasformare. Ma io dico: se non si studia l’anatomia, come si può trasformare un’immagine? Non si può…

Sì, mancano le basi.

Mancano le basi. La pubblicità non è che l’anima del commercio; ognuno definisce arte ciò che vuole; ma la vera arte è quando uno approfondisce il senso della realtà trasformandola.
Oggi, grazie ai mezzi fotografici, si possono fare delle cose eccezionali; questa, però, è arte di una certa visione.
La Pop Art, l’arte surrealista, l’arte informale, sono ormai superate; ma, soprattutto, nelle province, i giovani continuano ancora con l’informale. Nessuno vuole fare più la figura umana, perché, dicono, che è superata; ma l’uomo, da millenni, è sempre fatto di mani, bocca, e movimento. Quindi le basi si devono conoscere.

Poi manca anche una corrente artistica ben definita: in questi anni, ognuno dipinge ciò che vuole; è tutto un po’ tirato…

Sì, molto tirato. Inoltre non c’è una visione della trasformazione. Oggi, il più delle volte, l’industria culturale crea e pubblicizza degli artisti di scarso livello, che vengono messi accanto ai mostri sacri, come ad esempio Mirò, ma lui è già più decorativo, o Picasso, che ha creato tanti movimenti; e se poi, qualche volta, alcuni suoi lavori meno belli sono stati tirati fuori e messi sul mercato – solo perché di Picasso – lo si può giustificare.
Una volta, per raggiungere un certo risultato, bisognava impegnarsi per anni, come ha fatto Salvator Rosa a Napoli, che ho studiato per due-tre anni.
Lui non ha mai avuto una grande mostra, ne hanno fatto una in un museo nel beneventano, e adesso a Firenze, dove Emigrazione e caos puntasecca 2006 - Scarpatimi hanno anche coinvolto.
L’anatomia, invece, l’ho studiata per quattro anni: in questo tempo ho fatto non so quanti disegni di muscoli, di nervi.
Oggi tutti fanno subito una mostra, senza lasciare che l’esperienza maturi negli anni. Questo è un danno. La criminalità è quando si colpisce l’arte, e di conseguenza si colpisce tutta la generazione umana; come i muri che mettono in Europa. Bisognerebbe fare dei disegni sulle terribili cose che stanno accadendo in questo periodo, delle persone e dei bambini che muoiono. Abbiamo creato un mondo disastroso!

Come mai lei dopo è finito a Roma?

Perché sono andato ad insegnare alla IV del Liceo Artistico di via Crescenzio, vicino al Vaticano. Mi ricordo che Fiori acquaforte 1961 - Scarpatiqualche volta mi presentavo con il zucchetto cardinalizio in testa, perché, da napoletano, mi divertivo un po’.
I giovani erano molto contenti con me. Io insegnavo loro disegno dal vero e ornato disegnato. Li lasciavo liberi di esprimersi e venivano fuori dei disegni molto belli.
Ai miei studenti suggerivo di guardarsi attorno, di uscire per strada e di disegnare ciò che vedevano: i manichini di un negozio, la metropolitana, una macelleria con esposte le budella degli animali.
Una volta, un mio allievo ha fatto “La rivolta del beccaio”: un’incisione raffigurante una bestia che uccide il beccaio.
Si divertivano; la creatività era questa: osservare per poi esprimere quello che si è visto.
Non è sufficiente che il professore porti in classe una bottiglia, e poi tutti la copiano: per fare una natura morta, basta un po’ d’attenzione e tutti ci riescono; ma, uscire in strada e osservare, è un’altra cosa.
Disegnando bene, sono emerse non più di tre o quattro persone, in tutti i miei anni di insegnamento.
Ho avuto un allievo che è andato alla bottega di restauro a Firenze; un altro che è andato a disegnare per la Zecca dello Stato; un altro ancora che ha fatto la pianta del Giubileo, che ha vinto il premio del Vaticano.

In poche parole: bisogna uscire per strada, e non trasformare il lavoro di pittore in un lavoro da impiegato…

Certo! La strada è la via. Se uno guarda la gente, uno che beve qualcosa al bar, due persone che dialogano, tutto quello che si incontra per la strada, bisogna sempre capire il movimento che si vuole poi riprodurre: ognuno di noi si muove in continuazione, c’è un’atteggiamento continuo di anatomia.
È anche vero che la moda di questi anni è orrenda, inguardabile; quando passo per la strada non mi viene neanche più la voglia di disegnare: vedo i giovani indossare pantaloni rotti; camicie mezze fuori, mezze dentro; gente che sta solo a mangiare e a gozzovigliare, e non ha nulla da dire.

Negli anni Settanta, alla Galleria Canova a Roma, lei ha incontrato Elsa Fonda, sua moglie…

Lei a quel tempo non mi conosceva. Alla Galleria Canova avevano raggruppato quattro-cinque pittori, tra i quali Mario Scarpati con la moglie Elsa Fonda all'Accademia di Cracovia 1984Bagnasco, un futurista, Zancanaro, un famoso incisore di Padova, ed io.
Io l’avevo vista da lontano e poi un amico ci presentò. Ricordo che, gesticolando, le versai del vino, che però finì per terra. Essendo poi io napoletano ero molto vivace, e tutte erano curiose di conoscermi.
Questa Galleria era frequentata da marchesi, contesse, romani vivaci, ma io lo ero di più e quindi avevo tutti attorno: volevano sapere certe cose di me, perché io disegnavo sempre la realtà, facevo cose drammatiche.
In quell’occasione avevo esposto delle opere un po’ erotiche, però in un contesto molto raffinato, che Elsa era venuta a guardare.
Avevo appena eseguito delle incisioni sul Decamerone; avevo fatto i peccati e i peccatori. Ma dico io:“Ma che peccati?” I peccati sono quelli che non si fanno; i peccati sono quando tutto è immobile.

Lei ha partecipato alla Biennale di incisione contemporanea a Venezia. Che cosa si ricorda di quell’episodio?

Partecipare alla Biennale di Venezia era un bel successo. Ricordo di aver partecipato alla VI e alla VII Biennale; per me era importante esserci. Poi sono riuscito anche ad essere uno dei collaboratori della Galleria Venezia Viva, che ancora oggi opera.
Lì, venivano fatte mostre di incisori come Vespignani, Zancanaro; nomi grossi che hanno operato negli anni Una storia per Rembrandt puntasecca 1978 - ScarpatiCinquanta-Sessanta del Novecento.
Io selezionavo anche i giovani: sapendo che al sud c’erano dei giovani bravi, li segnalavo. In generale, sceglievo sempre i migliori.
Ora noto che pochissimi sanno disegnare bene; poi certi non conoscono ciò che bisogna sapere dell’incisione: buttano la lastra nell’acido e la lasciano lì, quando invece c’è un tempo di morsura, ovvero il tempo di corrosione dell’acido.
In inverno, per esempio, l’acido corrode più lentamente, mentre in estate è l’opposto – un po’ come con i binari che con il caldo si dilatano, e come anche i muscoli dell’uomo. Una volta si studiavano i maestri del passato, le tecniche usate da Rembrandt, Callot; adesso, invece, non si riesce a parlare di nulla, e chi fa un’incisione, alle volte, non sa nemmeno come l’ha fatta.
Nel momento in cui ho scoperto il bulino, ho capito che era molto importante, e che bisognava disegnare direttamente sulla lastra, che sarebbe la matrice.
Quando stampavo con l’inchiostro, tiravo fuori non più di quattro-cinque stampe; anche perché sapevo che stampare, ad esempio cinquanta copie, non sarebbe servito a nulla: tutto gira attorno al mercato, al guadagno, perciò alla gente non interessano più di tanto.

Quanto tempo ci si mette per realizzare una stampa?

Ci vuole una tecnica particolare; poi bisogna inchiostrare la lastra con inchiostri appositi. Molte volte si è dei bravi incisori, ma non stampatori: c’erano, infatti, degli stampatori che stampavano; ma io preferivo fare da me: anche Andy Warhol, Lucio Amelio, 1975. Courtesy Collezione Privata, Napoli.perché facevo prove su prove, fino a quando non ero soddisfatto del mio lavoro.
Ho prodotto quasi quattrocento-cinquecento opere; potrei riempire mezzi musei. Ho lasciato in Messico una collezione intera, quella de “I cavalieri scortesi”. Se oggi si vuole regalare un libro già letto, ad esempio, la gente non lo vuole, non vuole più niente: vuole solo i soldi.

Ritornando a Venezia, che cosa ne pensa della collezione di Peggy Guggenheim?

La Guggenheim è stata una donna intelligente! L’ho conosciuta a Napoli; era venuta assieme alla figlia, dal mio amico, il famoso gallerista napoletano Lucio Amelio, perché voleva organizzare una mostra per la figlia. Non ho mai avuto interesse di sfruttare questi personaggi: lasciavo che ogni cosa seguisse il suo corso.
Lei era una collezionista intelligente, con una grande e bella collezione di artisti di livello; se nel mondo ci fossero tante persone come lei, la cultura sarebbe sicuramente più avanti, e avremmo meno terrorismo culturale e più artisti di valore. La collezione Guggenheim ha davvero delle opere straordinarie; mi vengono in mente quelle di Picasso e Picabia.

Quando ha aperto il suo primo studio?

Il primo vero studio l’ho avuto a casa mia, a Barra. Alla sera dell’inaugurazione sono venuti alcuni artisti importanti tra i quali Arnoldo Ciarrocchi, un poeta delle Marche e titolare della cattedra di incisione a Napoli; e Augusto Perez, un IV parete pompeiana puntasecca 1978 - Scarpatifamoso scultore napoletano, che ha fatto delle sculture in bronzo straordinarie – lui è più conosciuto in Giappone che in Italia.
Abbiamo trascorso una serata particolare con il torchio d’Urbino, che avevo appena comprato.
Successivamente sono andato a Salerno e ho fatto un’altra volta un ritorno all’incisione; poi il torchio l’ho portato a Capranica, una zona etrusca, dove c’erano delle cose splendide da guardare; in seguito mi sono avvicinato a Pompei: amavo l’archeologia, amavo quella città. Spesso e volentieri andavo a guardare gli scavi; ho visto i corpi recuperati dalle ceneri del Vesuvio; l’arte pompeiana.
Mi sono anche avventurato in certi cunicoli e ho visto delle cose particolari. Dopo sono andato ad Ercolano, un’altra bellissima città sommersa dalla lava del Vesuvio; poi mi sono spostato più a nord: a Roma, per arrivare infine a Trieste, dove ho trovato molti dilettanti, ad eccezione di qualcuno.

Lei aveva lo studio di fronte al Museo Revoltella…

Ce l’ho ancora adesso. Qualche volta sono andato di mia spontanea volontà a guardare le mostre, che vengono fatte al Museo Revoltella: non sono mai stato invitato; mentre ricevo continue notizie, inviti, dal Messico, dall’Olanda…

Qua a Trieste è tutto un po’ fermo…

Già, io non mi arrabbio neanche più: non ne vale la pena. Ormai è inutile esporre, tanto non capiscono, non apprezzano nulla.
Nel mondo conosco tre grossi nomi del nostro filone neo-figurativo: Bacon, Sutherland e Soutine; poi bisogna andare a veder Klimt e altri in Austria. Quindi, in tutto, arriviamo a contare pochi grandi nomi, mentre nei libri parlano di centinaia di migliaia di pittori. Solo a Muggia ce ne sono qualche centinaio…troppi!
In tutta la mia carriera ho visto organizzare solo tre mostre dedicate al disegno italiano. Il periodo del Rinascimento era importantissimo, c’erano Leonardo, Pontormo, Cagnacci, in seguito c’era Callot, che faceva delle cose straordinarie. Ma oggi, se lei vuole vedere una rassegna raffinata di disegno, non c’è. Ho partecipato a tre mostre italiane del disegno, e tre volte sono stato premiato; dopo non hanno fatto più niente.

La grande verità puntasecca 1983 - ScarpatiHo letto che lei ha detto che è morto il 23 gennaio del 1939 e che è vissuto nel Seicento.

Sì, dico sempre che appena uno nasce è già come se morisse lentamente. Sono vissuto in un secolo passato, perché quando sto solo e non c’è il telefono, sono tranquillo, riesco a vedere le cose antiche, i mondi antichi, i castelli; ho dormito addirittura nella sala di tortura ad Urbino: mi hanno fatto dormire là, perché quel posto mi piaceva tanto; di notte sentivo delle strane cose.
Poi sono affascinato del mondo del Seicento, soprattutto per la luce che c’era; la luce che vediamo nei dipinti di Caravaggio aveva una componente magica.
Quando insegnavo, una volta avevo fatto abbassare le tapparelle, illuminando con certe luci la natura morta, in modo che gli studenti potessero disegnarla con quella luce particolare; e poi, mentre disegnavano c’era qualcuno che recitava Garcia Lorca. Tutto era molto importante. Avevo anche l’incensiere con l’incenso; come in chiesa, che veniva usato per i riti sacri, io l’incenso lo usavo a scuola per aprire la mente, per creare. C’era un’atmosfera davvero suggestiva, e tutti stavano in silenzio e concentrati; se qualcuno parlava, veniva buttato fuori dall’aula dagli stessi compagni. Ho sempre mantenuto un buon rapporto con i miei allievi.

Se le sue opere d’arte dovessero essere dei testi letterari, di che scrittore sarebbero?

Nelle mie opere c’è molto di Kafka; mi piace molto per le sue cose strane. Ho fatto tantissime incisioni a tema “metamorfosi”, prendendo spunto proprio da Kafka. Ho avuto modo di leggere anche Edgar Allan Poe, un poeta un po’ misterioso.
Quando succedeva qualcosa, un delitto, davo libero sfogo alla mia fantasia e disegnavo la scena, non la illustravo: La metamorfosi di Kafka puntasecca 1971 -Scarpatiper l’illustrazione ci pensava Walter Molino con le sue scene illustrate per “La domenica del Corriere”; mentre io cercavo qualcosa di aggressivo, di diverso.
In tutta la mia vita solo pochissime volte ho disegnato dei fiori, le altre li ho inventati, perché quello è il mio mondo; così come vedere la testa di Bucranio, la danza macabra – ce n’è una a Hrastovlje (Cristoglie, Slovenia n.d.r). Tutte cose che mi affascinavano e che mi colpiscono tuttora.
I veri artisti incisori del Rinascimento erano amanti della morte, non la sfuggivano. Lucas Cranach e Dürer fecero delle cose straordinarie.
Lo scheletro mi ha da sempre affascinato. Una volta ho dormito anche nella tomba circolare di Cerveteri; quando al mattino mi sono alzato, ho visto una luce affascinante. L’aver dormito in una tomba mi affascinava da morire: sentivo una forte carica (sorride).

Ricapitolando, per i nostri lettori, la tecnica della puntasecca in breve.

La puntasecca è avere una lastra di rame o di zinco nuda e con un bulino – diciamo a secco – incidere l’immagine direttamente sul rame. È come avere un foglio di carta e disegnarci con la penna. Il disegno si ricava al rovescio, quindi bisogna pensare a quello che si fa sulla lastra, perché quando poi si stampa, viene al contrario.
Il cavaliere scortese puntasecca 1982 - ScarpatiLa puntasecca è un intervento diretto, senza l’uso dell’acido; mentre con l’acquaforte bisogna preparare la cera sulla lastra, in modo che vengono coperti i segni e l’acido poi scava.
La puntasecca è una specie di bulino che dà i segni vellutati. I trucioli che si formano sulla lastra, raccolgono i segni dell’inchiostro; ciò dà una certa morbidezza alla stampa.
Si possono stampare non più di venti-venticinque esemplari, perché sotto al torchio la lastra si schiaccia. L’incisione è una cosa interessante, solo che non tutti la conoscono, e non è nemmeno diffusa dappertutto.
Il disegno ha una determinata collocazione: finisce là; mentre con l’incisione bisogna poi fare le stampe; si possono creare a sanguigna, si possono mescolare inchiostri di colori diversi. Poi ognuno fa esperienza nel tempo.
Per un lungo periodo ho lavorato con il rame: mi dava forza – non a caso è il migliore conduttore di elettricità. Con l’ottone, invece, è impossibile disegnare; mentre il bronzo è ottimo per la scultura, ma per quello, c’è un altro meccanismo di fusione.

Ringrazio Mario Scarpati per l’artistica chiacchierata.

Nadia Pastorcich ©centoParole Magazine – riproduzione riservata.

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