Lo Specchio Vuoto: Ferdinando Scianna, fotografia, identità e memoria

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piccole riflessioni su un libro di Ferdinando Scianna

Ferdinando Scianna non è solo uno dei più grandi fotografi italiani viventi (se non il più grande), ma anche quello che potremmo definire un vero e proprio filosofo della fotografia.

Lo Specchio Vuoto - Ferdinando SciannaCapace di parlare attorno all’argomento immagine fotografica con una profondità ed una cultura che pochi hanno, è anche dotato di una scrittura che riesce ad unire grande semplicità ed estrema efficacia. Il fatto che sia stato introdotto in gioventù agli ambienti artistici ed alla vita culturale da un personaggio del calibro di Leonardo Sciascia è parziale riprova di come ci si trovi di fronte ad un personaggio in grado non solo di produrre un patrimonio fotografico straordinario, ma anche di condividere riflessioni e intuizioni su un argomento che, solo in tempi estremamente recenti, si è liberato dello scomodo fardello costituito da una pia illusione: che sia uno strumento di esclusiva testimonianza del reale. In questo suo ultimo libro (Laterza Editori, 2014). Scianna affronta un terreno scivolosissimo con molta eleganza: la questione del rapporto tra identità e immagine nel ritratto.

Niente è più astratto e sfuggente della nostra identità e al tempo stesso niente è più esposto al giudizio altrui, è più concreto e visibile.”

Questa frase è la prima che si legge nella quarta di copertina, quello che usualmente leggiamo quando esaminiamo un libro prima di decidere se comperarlo o meno, rigirandolo dopo esserci fatti attrarre dal titolo o dal nome dell’autore. È come un pre-incipit che mi ha subito attratto alla lettura di queste pagine, che Ferdinando Scianna apre con una considerazione apparentemente banale: il come la stragrande maggioranza di chi guarda una foto che gli è stata appena scattata non vi si riconosca. La foto non soddisfa l’immagine di sé che si ha davanti agli occhi e si stenta a riconoscersi in essa. Tranne quando magari è passata una decina d’anni e allora l’espressione, nel riguardare quella stessa foto, muta, e dalla faccia scocciata, insoddisfatta, se non pesantemente infastidita si passa ad un sorriso melanconico.

Nella nostalgia di quello che eravamo ci riconosciamo con molta più facilità e piacere.

Andrea Mantegna - Cristo MortoDa questa osservazione che qualcuno parrebbe trovare pari alla scoperta dell’acqua calda, Scianna sviluppa un ragionamento articolato e ricco di riferimenti non solamente legati alla fotografia, ma anche a letteratura e neuroscienze, in cui ci racconta di come la fotografia abbia, nella sempre maggiore importanza (e ridondanza) che ha assunto, messo in pericolo la nostra già flebile idea di identità, la nostra capacità di riconoscerci. Come un Narciso che nello specchio d’acqua vede l’immagine di un giovane bellissimo e, non riconoscendola come la propria riflessa, affoga nel tentativo di raggiungere quel bellissimo giovane.

Il punto è proprio il fatto che Narciso muoia per la sua incapacità di riconoscersi, non per il banale dato di essere un vanesio innamorato di sé stesso. Narciso non è innamorato di sé, è innamorato di una immagine che non riconosce come propria. Questa figura mitologica è uno degli assi, a parer mio, su cui si sviluppa il ragionamento di Scianna. L’altro è la mirabile sintesi del senso de “La Chambre Claire” (“Camera Chiara”) di Barthes, riducendo tutto alle motivazioni di partenza del geniale semiologo francese. Barthes infatti, come scrive Scianna, parte nel suo ragionamento dottissimo attorno fotografia da una personalissima ricerca: una fotografia che possa rappresentare al meglio il ricordo della madre defunta da poco. Barthes sceglie alla fine una fotografia della madre da bambina, ovvero una immagine che lui personalmente non ha, ma che in sé racchiude comunque l’essere la di lui madre. In quella immagine c’è anche la madre di Barthes, c’è il destino di diventare madre.

Il potere evocativo e iconico in certi casi di una immagine fotografica, specialmente di un ritratto, è argomento che ricorre spesso nella ragionamento di Scianna. Vi sono due punti in cui fa delle considerazioni che in me hanno mosso parecchi interrogativi.

In uno, nelle prime pagine di questo libro, parte dall’etimologia della parola fotografia: le parole greche phos/photos e graphia. E qua sta la prima domanda, dice lui. Scrittura di luce o scrittura con la luce? Nel primo caso si tratterebbe allora di vedere i fotografi come interpreti, riflettori della descrizione che il mondo dà di sé con la luce. Nel secondo caso si tratterebbe di essere dei veri e propri scrittori, posti sul versante dell’arte, dell’arbitrio.

Ernesto Che Guevara

L’autore si dichiara appartenente alla prima categoria, per lui è valida questa interpretazione del senso di essere dei fotografi. Interprete, testimone, riflettore con un enorme potere di creare inconsapevolmente delle vere e proprie icone. Come nel caso della seconda fotografia più famosa di Ernesto “Che” Guevara: quella del suo corpo appena ucciso in Colombia. Se i miliziani che lo avevano fotografato avessero avuto un minimo di cultura sulla capacità e potenza di una immagine non avrebbero fatto circolare nessuna immagine di quel corpo, tantomeno fotografata in quel modo che lo fa assomigliare in modo così evidentemente simile al Cristo deposto del Mantegna. Quei militari hanno inconsapevolmente creato una icona potentissima. Questo il Presidente statunitense Obama lo sapeva benissimo, e difatti si è ben guardato dal fare circolare qualunque immagine di Bin Laden morto. Ne ha azzerato l’esistenza.

Su questo punto mi è saltato prepotentemente alla memoria un film non eccezionale ma con uno spunto di partenza geniale: “Sotto tiro” (Roger Spottiswoode, 1983). Al protagonista, un noto fotografo di guerra americano che si trova in Nicaragua, i ribelli sandinisti chiedono di realizzare una foto che faccia sembrare vivo il loro leader Rafael, ucciso dalle truppe del presidente Somoza, e smentire così la notizia diffusa dalla stampa governativa con la speranza di fiaccare il morale della resistenza.

sottotiroL’operazione ha successo. In buona sostanza l’identità del capo dei ribelli Rafael, diventa la fotografia in cui si simula che lui sia ancora vivo. Rafael vive perché c’è una fotografia che lo ritrae come se fosse vivo. Rafael è vivo in quanto fotografato. Un po’ come il discorso che Scianna definisce solo apparentemente banale, in cui ci fa notare che in un qualsiasi semplice controllo dei nostri documenti da parte della forza pubblica, se non corrispondiamo alla foto che il documento riporta, non siamo più riconoscibili e ci viene contestata la nostra identità anche se la foto effettivamente ritrae noi. Davvero pare apparente poca cosa, ma ha invece una portata enorme. È la riprova che oramai la nostra identità è completamente e pericolosamente affidata ad una immagine di noi stessi che, come si dice nelle prime pagine del libro, spesso e volentieri trova persino noi stessi se non insoddisfatti, incapaci di trovare corrispondenza tra la nostra idea di noi stessi e l’immagine che abbiamo di fronte.

Continuo a pensare al cinema, a come ci abbia presentato spesso esempi paradossali ma emblematici di rapporti complessi fra identità e immagine. Film come “Good Bye, Lenin“, in cui l’equilibrio di una identità viene preservato attraverso una costruzione in immagini di una realtà completamente fittizia, o a “L’occhio che uccide”, in cui il filtro di un obiettivo è indispensabile per manifestare la propria identità e azzerarne un’altra… Ferdinando Scianna è ricchissimo di riferimenti letterari e storici, a dimostrazione non solo di come sia lui uno studioso attento e colto, ma di come il pensiero umano sia ricchissimo di riflessioni sul rapporto che intercorre fra identità e immagine.

La capacità di una immagine di alterare non solo la nostra idea di identità mettendola in crisi, ma anche di plasmare la realtà pare essere in effetti la partita che si sta giocando ai nostri giorni, più che mai sul terreno dei social media. Mai ci sono state così tante immagini di noi visibili come nell’epoca di Facebook e simili. Immagini che in autonomia pubblichiamo non per rappresentare la realtà a per rappresentare l’immagine che noi abbiamo di noi. Rimarchiamo la nostra idea di identità, la nostra capacità di riconoscerci con espressioni spesso stereotipate e inevitabilmente lontane dal reale, tanto da diventare una immagine che tutti di noi avranno, filtrata dalla nostra sempre più in crisi capacità di riconoscerci, che inevitabilmente azzera la nostra capacità di essere riconosciuti dal prossimo, se non in fotografia.

Un’ultima, fra tante, considerazione che mi resta impressa in questa lettura parte dall’affermazione che a volte sarebbe più utile la capacità di dimenticare che quella di ricordare. Ma è impossibile. Non riusciremo mai a dimenticare ciò che vorremmo scordare. E la fotografia, nella sua ridondanza odierna ci sopravvivrà. Con immagini in cui in parecchi casi non ci riconoscevamo completamente, verremo ricordati.

Vincenzo Russo © centoParole Magazine – riproduzione riservata

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