La distruzione: Dante Virgili, un desiderio di male profondo

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L’opera dell’ingegno umano (quella letteraria non fa eccezione) spazia per ogni dove, ed ha infinite sfaccettature e infiniti colori. Leggere, approfondire, cercare di capire, sospendendo il giudizio, ciò che a prima vista (o lettura) stride e addirittura per contenuti tende a ferire, a inorridire e ad allontanare – per lo studioso, e anche per il vero amante del leggere e della cultura, è d’obbligo. Dante Virgili (della reale esistenza del quale, per un certo periodo, persino si dubitò; non si trattava, però, di uno pseudonimo ma di un uomo nato a Bologna nel 1928, vissuto e morto assolutamente da solo nel 1992, le ceneri del quale riposano in un cimitero di Milano grazie alle offerte dei suoi lettori) fu autore nel 1970 del romanzo “La distruzione”, apologia di Hitler e del Nazismo. Prima, dopo, durante – era stato pazzo, amante della pornografia, ossessionato dalla figura di Hitler stesso, e abitatore di una stanza definita dai pochi che lo conoscevano ‘miserabile’, nella quale, sotto pseudonimo, scriveva per vivere un po’ di tutto, dai romanzi per ragazzi ai Western. Nel 1970, però, si è in piena contestazione: nel 1970 si può sperimentare, si può osare, e Virgili pubblica – con Mondadori. È un libro, “La distruzione”, che, per contenuti e stile, è potenzialmente esplosivo: eppure, passa completamente inosservato. Di Virgili non si parla più fino al 2003, quando Pequod ripubblica e Mondadori blocca il secondo titolo dello scrittore, “Metodo della Sopravvivenza”, uscito poi nel 2008 sempre con Pequod. Di Virgili, centoParole parla con Serena Lampugnani [NdE]. 

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La distruzione - Dante VirgiliMetti una lezione universitaria “sovra numerale”, scelta esclusivamente per personale interesse e seguita per casuale tempo libero. Virgili l’ho scoperto lì, in un aula restaurata in simil bianco ospedaliero, dalla temperatura cocente – tant’è che, alle soglie del Natale, ci si interfacciava con il professore scorgendo un panorama innevato al di là di vetri da finestre spalancate.
Un giorno, per caso, frequentando il corso di letteratura contemporanea all’università; nella prima lezione, il professore ci disse di analizzare l’indice degli autori del manuale consigliatoci e di scrivere su un foglio, che poi avrebbe raccolto in modo anonimo, cinque autori non citati nel detto manuale, ma da noi conosciuti.
Fu difficilissimo perché, bene o male, ci sembrava non mancasse nessuno “d’importante”.
Era appunto quello il motivo del corso, o meglio uno dei motivi: l’apertura mentale alla critica personale ovvero riuscire ad avere gli strumenti per poter trovare, apprezzare, analizzare nel vasto mare della letteratura anche quegli autori considerati, dai più, meno importanti, ma, in qualche modo, personalmente fondamentali.
In quell’occasione ci diede tre nomi di autori, spiegandoci le relative opere da analizzare, se avessimo voluto approfondirli. E Virgili fu uno di quelli.

Mi colpì la scelta provocatoria della trama accompagnata da quel titolo breve che non lasciava spazio a fraintendimenti. “La distruzione”. Non trovai nessun collega interessato all’impresa analitica, e fu così che, come lettura vacanziera natalizia, scelsi Virgili.

“Si ritiene che gli scrittori abbiano la memoria lunga o comunque una memoria selettiva particolarmente sviluppata che gli permette di scavare così profondamente dentro un solo ricordo da riassorbirvi tante altre cose per poi collegarle tra loro e creare un mondo.”

Analizzando “La distruzione” di Dante Virgili e il saggio a commento di Antonio Franchini, “Cronaca della fine”, una prepotente riflessione è venuta spontanea: se poniamo il caso che la citazione di Franchini di cui sopra sia vera, quale mondo volle costruire Dante Virgili scrivendo il romanzo “La Distruzione”? E soprattutto, quale parti del suo mondo reale sono inserite nel detto romanzo? La domanda di per se può sembrare banale, ma la risposta vi posso assicurare che si profila a dir poco spaventosa, in particolare per la consapevolezza di aver trovato l’opera di Virgili immensamente pregna d’odio.

Andiamo per gradi. “La distruzione”, cos’è?

Romanzo di non celata tendenza nazista (definito appunto dalla critica “il primo romanzo nazista italiano”), fu pubblicato nel 1970 dalla allora considerata “anti-politica” Casa Editrice Mondadori, dopo un estenuante, e pervaso di pareri contrastanti, iter editoriale il quale vide una certa insistenza da parte dell’autore fronteggiato da un editore perplesso dai contenuti provocatori dell’opera. Tant’è che, tra gli addetti ai lavori, ci fu chi sostenne che il testo, nel complesso, appariva come “un inconsistente recipiente in cui l’autore ha versato tutto l’orrore possibile” oltre ad attirarsi aggettivi quali “libro sinistro” e “velenoso”. Dall’altro lato invece c’era chi caldamente il testo lo sosteneva: “non accettare alle stampe un romanzo come ‘La Distruzione’ sarebbe nei confronti dell’autore un atto di ingiustizia e nei confronti della verità un atteggiamento di non necessaria timidezza”. Alcide Paolini, uno dei direttori editoriali di Mondadori che si prese a cuore le sorti di Virgili venendo dallo stesso perennemente stressato durante l’attesa per la pubblicazione, disse: “A me, dopo tanti manoscritti pieni di cacatine di mosca sulla carta immacolata, di lamenti di quarantenni falliti, di nevrosi di cinquantenni incompresi, di balordaggini intelligentissime e precisissime e lucidissime di trentenni frigidi o al massimo impotenti, trovarmi di fronte un testo così ‘sinistro’, così pieno di céliniani vomiti e veleni mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo”. Alla fine, complice il sostegno al testo del poeta Vittorio Sereni appartenente allo staff della casa editrice, il libro venne pubblicato, nella speranza, che risulterà poi vana, che la cosa potesse dare adito a scandali pubblicitari. Il libro passò totalmente inosservato: il caso Virgili non ci fu, ergo né critici, né letterati diedero rilievo alla provocazione.

In questo romanzo, la storia narrata è – grazie al cielo, direi – molto semplice; racconta tre giorni di vita del protagonista svolti in una Milano estiva tra il lavoro di correttore di bozze nella redazione di un giornale governativo (lavoro che lui considera la morte della creatività artistica letteraria) e la vita da single. È un ex interprete delle SS in Italia, ora uomo misogino, sadomasochista, nostalgico nazista in un momento storico, attorno alla metà degli anni Cinquanta, nel 1956 e in piena Guerra Fredda, in cui si teme – ma, nel caso del protagonista, si spera – la guerra nucleare durante la crisi del Canale di Suez. Con la fortuna di aver avuto a che fare con una “trama semplice”, non vorrei sminuire l’opera, la quale appare, dal punto di vista stilistico, estremamente complessa.

Il testo è scritto attraverso un “io narrante” a mo’ di flusso di coscienza, con assenza di punteggiatura utile alla comprensione, in quanto i presupposti periodi sono intervallati da azioni, pensieri, flashback, dialoghi, citazioni di autori tedeschi – per la maggior parte filosofi – desideri, atti sessuali violenti veri o presunti, violenza gratuita, ricordi della precedente vita da traduttore e frasi in tedesco non tanto utili in traduzione, ma atti a dar sonorità all’opera stessa. È un modo di scrivere che presuppone una immersione lenta, avvenuta la quale il tutto sembra apparire più comprensibile; è un approccio che spaventa perché prevede una certa immedesimazione, complicata, avendo a che fare con un protagonista estremamente violento. È un uomo che anela alla distruzione totale, che odia tutto, tutti, in primis se stesso, la sua condizione sociale mediocre e le donne, che deve pagare per avere a sua disposizione.

Caotico, geniale, violento, accattivante, sicuramente “La distruzione” è un libro che non passa inosservato. Franchini scrisse: “La voce di Virgili è ossessiva, monomaniaca, ripetitiva. Voce riconoscibilissima, personale, efficace […] Lo stile di Virgili, le sue associazioni brusche, certi bypass in cui in uno stesso periodo vengono suturati stati d’animo ed eventi diversi e lontani, sprazzi di vita pubblica e privato, cronaca ritagliata dai giornali e ricordi remoti, sommovimenti della memoria e dell’incubo, ci offrono un campionario di soluzioni tecniche non scontate, vitali, in grado di scuotere e di spiazzare. La capacità di invischiarci, di trasportarci nel suo malessere, di farci sentire, alla fine, l’acida plausibilità di una nausea che all’inizio ci era parsa inaccettabile, si deve al talento di uno scrittore […] Benché siano passati 30 anni queste pagine si fanno ancora leggere, il che non può dirsi di molta narrativa prodotta negli stessi anni […] Dire dove sta il libro di Virgili è difficile. È un libro estremo che suscita prese di posizione estreme. […] ‘La distruzione’ non poteva aspirare a nessun successo commerciale né allora né adesso, perché solleva molte più domande su di se e sul suo stesso autore di quanto non dia risposte. È un romanzo per pochi, per chi abbia voglia di interrogarsi su dove finisce la bestemmia e comincia il male vero o su dove finisce il male vero e inizia la letteratura”.

Ma Dante Virgili, chi era? Dante Virgili nasce a Bologna nel 1928, lavora per Garzanti a Forlì fino al trasferimento a Milano, dove trova occupazione nell’editoria, pubblicando, per lo più, romanzi Western, libri di avventure e gialli per ragazzi sotto vari pseudonimi, e dando alle stampe, nel 1970, il romanzo di cui sopra con la casa editrice Mondadori, la quale, vent’anni dopo, rifiuterà, attraverso il direttore editoriale Franchini, la sua opera successiva e di ideale prosecuzione alla prima, intitolata “Metodo della sopravvivenza” che verrà pubblicata, postuma, da PeQuod nel 2007. Dante Virgili muore da solo a Milano nel 1992.

Ferruccio Parazzoli lo definisce un uomo fisicamente brutto ma dotato di una morbosità coinvolgente, non banale, coltissima, che alla fine attirava anche le donne; era un nazista convinto, anzi “dire che era fascista sarebbe un complimento, e invece era proprio nazista”. Era un forsennato amante di Hitler e della Germania, nella quale visse – ecco il perché della perfetta conoscenza del tedesco – da piccolo con il padre, anche se il reale motivo di quella esperienza non si seppe mai. Nell’ultimo periodo, dice Parazzoli, Virgili si era invaghito di Saddam Hussein; aveva un morboso rapporto con il cibo, non sapeva cucinare, mangiava solo prosciutto cotto e carne trita.
“La nostra”, dice, “non era un amicizia nel senso di uno scambio; lui riversava solo le sue angosce attraverso lunghe telefonate, che avvenivano tutte le domeniche sera alla stessa ora, in cui mi faceva il resoconto tragico della sua settimana: stava male psicologicamente (infatti venne ricoverato più volte in una clinica milanese per disturbo della personalità), era fissato con un erotismo a metà tra masochismo e violenza che narrava (come nei suoi libri) con la più totale indifferenza nei confronti della vittima in questione.”
Poi una domenica non lo chiamò; dopo qualche giorno Parazzoli andò a casa sua e la portinaia gli disse che era morto. Da solo. In una pozza di sangue. Parazzoli andò a riconoscere il corpo in obitorio e gli diede una degna sepoltura.
Virgili fu per Parazzoli, molto influente, complice il fatto che – cito parole dello stesso Parazzoli rilasciate al collega Franchini – “Ho sempre avuto una certa curiosità verso i pazzi o meglio verso certe forme di follia meno eclatanti e volgari ma più imprevedibili e probabilmente più profonde….”; personalità influente perché: “la si sentiva, avvicinandosi, parlandogli, la sua propensione verso il male. Era anche cinismo: ma sopratutto amava esteticamente il male. Viveva in una casa normale da piccolo borghese nella quale però v’era una stanzetta gremita di riviste porno sadomaso e di strumenti di coercizione. Li teneva li, pronti all’uso.”

La forza e la particolarità di Virgili era appunto la violenza, caratteristica che attirò anche Alcide Paolini: “mi aspettavo un personaggio un po sinistro, anche fisicamente, invece no”, disse. “Aveva questo aspetto un po laido, che mi respingeva, ma anche in qualche modo mi attirava… forse non sapeva neppure lui cosa voleva dalle donne e poi, il bisogno di distruggere, quello ce l’aveva davvero… mi faceva un effetto stranissimo perché a volte si mostrava molto generoso di se, aveva delle qualità anche molto umane che io non mi aspettavo in fondo, mi aveva colpito…”.
Per quanto riguarda la violenza, tornando a Parazzoli concludo con una frase sua molto esplicativa: “Io romanzi italiani di questa violenza non ne ho mai letti nonostante molti narratori cerchino continuamente di stupire in questo senso. Lui non partiva dalla letteratura, però ci arrivava”.

Antonio Franchini pubblica “Cronaca della Fine” analizzando il ‘caso Virgili’ partendo dal lungo iter editoriale che portò alla pubblicazione del primo romanzo, passando per i vent’anni in cui Virgili bazzicò in Mondadori, del rapporto che ebbe con gli altri scrittori della casa editrice ed infine di cosa rappresentò per lui stesso nonostante avessero solo un rapporto di tipo telefonico ed epistolare: non si incontrarono mai.
“La Distruzione” veniva presentata come “la testimonianza di un folle che, dal di dentro, ci mostra la genesi di un orrore che siamo abituati a veder descritto solo da interpreti indignati o da vittime attonite” e nonostante ciò, secondo Franchini, “nessuno si accorse di cosa c’era veramente scritto in quel libro perché il destino più ovvio e naturale dei libri è essere fraintesi o non essere letti affatto se non da sparute ed ininfluenti minoranze [….] leggendolo si capiva subito che l’autore non era né uno di quei versatili professionisti, né uno di quei pacifisti depravati che, attingendo ad una loro propria interna, segreta, controllata attrazione per l’orrore, sono capaci, a seconda del caso e delle circostanze, di ricostruire dal di dentro la psicologia nazista … leggendo chiunque poteva capire che quello scrittore, quell’uomo, doveva essere lui stesso il mostro.”

Con la consapevolezza che “qualunque scrittore è come se mettesse un po’ della sua vita nelle mani di chi pubblica la sua opera”, così Virgili si attaccò, con le unghie e con i denti, alla casa editrice milanese nei panni di Alcide Paolini prima, di Ferruccio Parazzoli poi e, fino alla morte, ad Antonio Franchini. Ricevette in cambio la stima degli scrittori che vi lavoravano i quali lo consideravano “… un genio, e nonostante fossero tutti consapevoli della sua pazzia, ci si aspettava da un momento all’altro che creasse qualcosa di meraviglioso dal punto di vista scrittorio”. La casa editrice ne rimase colpita così tanto, che fece di tutto per lui: lo mise a lavorare per Mursia, e perfino Mimma Mondadori si occupò di lui, con soldi, con collette. Alcide Paolini sostiene che “è possibile che la follia autentica comprovata di Virgili costituisse la garanzia in più che spiegherebbe la strana forma di investimento a lungo termine che un’intera casa editrice fece su un piccolo demone, su un uomo che all’inizio si presentava come un modesto depravato e che poco alla volta sarebbe cresciuto fino a diventare figura e simbolo di qualcosa di immensamente più sinistro”.
Franchini e Parazzoli portano dentro di loro il segno indelebile della personalità del demone, la qual cosa è testimoniata dal fatto che Parazzoli lo fa figurare in tre suoi romanzi, mentre Franchini usa, per questo testo, il titolo che Virgili scartò per quello che poi divenne “Il Metodo”, ovvero “Cronaca della fine”.

In conclusione vorrei citare questa risposta di Parazzoli a chi gli chiese se, per lui, Virgili potesse rappresentare il male: ”per me è diventato difficile rispondere perché all’immagine reale di Virgili mi si è sovrapposta quella romanzesca che io stesso non dico di aver creato, ma ho sviluppato, e quindi ha assunto delle caratteristiche di mostruosità che lui senz’altro aveva ma non così esplicite. L’immagine dell’uomo rimane appiccicata sull’opera, l’opera non è identificabile da sola… Io immagino che cosa volesse dire per un lettore che non conosceva Virgili leggere ‘La Distruzione’. Probabilmente non capiva l’origine di tutto questo. L’origine era una volontà di distruzione autentica. Autodistruzione e distruzione di tutto. Di tutto quello che c’è attorno, ma non era rabbia. Io credo che fosse un senso di disgusto. A cominciare da se stesso, a cominciare dal cibo [….] la sua scrittura infatti è disgustosa. Di un disgusto però rivestito di estetica, cioè della volontà di arrivare all’animo di chi legge e naturalmente, chi scrive, ci arriva soltanto se riesce a esprimere il proprio più intimo sentimento. Che in questo caso è il disgusto. Le opere di Virgili sono l’espressione di una forma del male; l’orrore è che leggendo Virgili si ha la sensazione che il male sia la sostanza delle cose e che noi passiamo la vita a giocare a nascondino con il male. Virgili rappresentava per me il fascino del male. Il fascino del nero, del buco nero, del niente. Virgili per me è questa porta attraverso cui si entra nel niente, il fascino del nulla sta nel fatto che il nulla contiene qualche cosa, qualcosa che ci sfugge e che forse è più salvifico del bene. Questa è la bestemmia che alla fine viene fuori.”.

E, dopo aver letto il libro, questa risposta risulta talmente bella da commuovere. Questo libro fa male, trafigge talmente tanto da risultare piacevole. È masochismo. È un incubo che ti sveglia di soprassalto avendoti svelato la presenza interna di un desiderio di male profondo .

Serena Lampugnani 

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