Umberto Eco, La storia in un romanzo.

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 umberto_ecoPer la prima volta nella vita ho avuto l’occasione di incontrare di persona il grandissimo scrittore e semiologo Umberto Eco. L’occasione è stata l’attribuzione del Premio FriulAdria “La storia in un romanzo” edizione 2014, giunto alla 7^ edizione e promosso dalla Fondazione Pordenonelegge di Pordenone con il festival èStoria di Gorizia.

 Ci sono sogni che, per quanto ad occhi aperti, ogni appassionato di un genere si porta dietro per tutta la vita; fino a quando non si ha la possibilità di esaudire il sogno, sempre che ciò possa avvenire, esso rimane vivido nel profondo dell’anima. Così, gli amanti di uno sport, un giorno, sperano di poter incontrare il loro campione e i grandi viaggiatori di visitare il luogo che li ha fatti volare con l’immaginazione; gli sfegatati della musica di poter finalmente collezionare il vinile preferito, autografato dalla rockstar di cui si sono innamorati.

 Uno dei miei sogni, anche se preferisco definirlo l’incontro che più di ogni altro avrei voluto fare, da quando, dodicenne, rimasi folgorato dal suo romanzo più conosciuto, Il nome della Rosa, è sempre stato quello di poter conoscere il suo illustre autore di persona, e poter scambiare qualche battuta a riguardo, nonostante sia risaputo quanto egli odi quell’opera.

 Nonostante fossi molto giovane, ricordo che trovai nel suo romanzo tutto ciò che potevo desiderare da un testo narrativo, innamorandomi senza compromessi di quella disamina della natura umana, costruita su molteplici piani di trama – come tecnicamente appresi solo molto tempo dopo, leggendo ogni possibile saggio di quel libro. Fui estasiato dal modo in cui lo scrittore Eco aveva saputo racchiudere la varietà dei generi narrativi, abbracciando l’immensità della natura umana in un solo romanzo: il giallo all’inglese, i dogmi spirituali, l’Amore come potenza superiore, i sentimenti più bassi dell’istinto e quelli più alti del Sublime; la saggistica dentro al romanzo. C’era l’insoluto universale di ogni elucubrazione filosofica, assieme ai massimi sistemi ispirati dalla volta celeste. Quel libro, come egli stesso azzardava asserire, con innegabile ragione, era tanti libri che invocavano altri libri ancora. Perché quell’opera è un tomo di Storia, un’enciclopedia medievista redatta con una complessa filologia funzionale alla trama, anzi alle trame. E svela tutti i segreti celati nell’indole mistica propria degli esseri viventi.

 Il Professor Eco riuscì a stregarmi e, da allora, con immutabile ammirazione, penso sempre a lui come ad uno dei più grandi scrittori di tutta la storia umana; anche se credo che, illustrissimo scrittore e semiologo, nonché teorico del linguaggio letterario e filosofico, data l’importanza che ha rivestito per almeno cinquant’anni nella cultura italiana e internazionale, non abbia bisogno di palesi adulazioni.

 Avvertire dentro per tanto tempo il tale desiderio d’incontrarlo, nutrito negli anni dalla lettura di ulteriori capolavori miliari quali “Il pendolo di Foucault” o “Baudolino”, è un’arma a doppio taglio. Al giungere dell’agognato appuntamento, quel tormento voluttuoso ti fa sentire come un qualsiasi Adso da Melk, nell’istante in cui vorrebbe osare chiedere al suo mèntore dei grandi misteri dell’Amore. Quali domande rivolgergli? In che modo renderle appropriate e non scontate, non ridondanti ma originali? Certo che, al confronto con una delle menti più illustri del mondo letterario degli ultimi due secoli, soprattutto quando come me si covano sedicenti mire di scrittore, non ci si può sentire che novizi inesperti ed impacciati.

 La conferenza stampa di presentazione del premio, solo per giornalisti, è indetta all’Hotel Moderno di Pordenone alle ore 17.30. Il Professore arriva puntualissimo e si accomoda nel salottino della hall, in attesa di un cenno dei responsabili stampa per l’inizio; e dell’arrivo di Margaret Atwood, con la quale vuole scambiare due chiacchiere in inglese.

Pordenonelegge 2014

Umberto Eco e Margaret Atwood.

 Dopo quell’interessante ritrovo, ci spostiamo tutti insieme nella sala conferenze: ci muoviamo all’unisono con lui. Organizzatori e giornalisti insieme, lo accompagniamo nella sala preposta, ed è finalmente arrivato il mio momento di scoprire e conoscere com’è l’uomo Umberto Eco. E se fosse antipatico, schivo e restio alle curiosità di chi vorrebbe conoscerlo a fondo, con indissimulabile piglio morboso? Quale grande delusione sarebbe stata per me scoprirlo distante, repulsivo, disinteressato agli incontri, vanitoso oppure scontroso. Avevo riflettuto più volte su questo dubbio, già appurato in passato, con risultati alterni, nei confronti di personaggi e artisti di una certa fama che avevo avuto il privilegio (o meno) di conoscere. Invece, com’è il grande umanista inseguito per tanto tempo, di persona? Ad essere sincero avevo già fugato tutti i dubbi, non appena era apparso. Egli non poteva che rivelarsi per quello che avevo sempre immaginato. Non avrebbe che potuto confermare la disponibilità e affabilità che gli avevo sempre attribuito. E avrebbe confermato la sua grandezza; la sua conoscenza universale ed enciclopedica, la sua profonda comprensione della natura umana; la similitudine con la bonarietà, la scaltrezza e l’impareggiabile sense of humor dei suoi indimenticabili personaggi letterari.

 C’è una cosa di cui sono assolutamente convinto, e che ho imparato nel tempo, sempre meglio, leggendo i più grandi autori classici: Shakespeare, Melville, Poe, Sue, Thoreau, Twain, Conan Doyle, Calvino, per citare i migliori. Lo stesso Umberto Eco, che ascrivo alla nobile cerchia, senza distinzioni. Questa convinzione è che ogni uomo, intriso della sostanza della Conoscenza e dell’Arte, della Storia e della Filosofia, delle capacità analitiche dell’Illuminismo e della disponibile grandezza del proprio sentire, che a sua volta si è nutrito delle stesse geniali sostanze di coloro che lo hanno preceduto, attraverso le loro opere, non può che essere immenso anche come essere umano.

 Mentre i giornalisti lo incalzano con domande più o meno interessanti, talora volutamente critiche, altre prettamente didascaliche e di pura cronaca, il professor Eco dimostra quanto sia simile al metodico e sottile Guglielmo da Baskerville, mutuato da Sherlock Holmes. Quanto sia scaltro e tagliente, ma disponibile e generoso nelle risposte, abbracciando simbolicamente tutti gli intervenuti alla conferenza, nutrendoli di quella linfa vitale che solo illimitate erudizione e sensibilità possono far sgorgare. Egli non azzanna e non rifiuta la sfida, non si nasconde, non lascia né con l’amaro in bocca né con domande irrisolte o con risposte accomodanti; accetta il confronto con indomabile energia, godendosi la chiacchierata, anche quando gli chiedono, con una sferzata inefficace, come sia la vita da pensionato. Non si illudano mai i lettori, o i suoi detrattori, che uno scrittore possa andare in pensione; c’è pur sempre qualcosa da scrivere. Anzi, tre volte tanto. Scherza, ironizza. Quando una domanda se lo merita, la annichilisce con un semplice No, imperioso. Eppure si sofferma, riflette e rilancia, esaudendo tutte le curiosità, anche quelle banali e ripetitive, di ognuno dei suoi ammiratori; perché non credo di sbagliarmi nell’identificare, nella totalità dei professionisti dell’informazione presenti, soprattutto suoi accaniti fan e lettori.

 Sempre con grandissima puntualità, va dato atto all’organizzazione del Festival, si tiene alle 18.30, al Teatro Verdi invece, la sua lectio magistralis, improntata sul romanzo a sfondo storico, come il titolo del premio attribuitogli vuole.

Umberto Eco; Teatro Verdi di Pordenone.

La lectio magistralis al Teatro Verdi.

 Mi siedo nella poltrona assegnatami; non in platea, ma in prima galleria. Mi dispiaccio fra me e me della posizione, dato che mi sarebbe piaciuto essere un po’ più vicino al palco, per scattare delle foto. Attendo l’inizio appena avvilito, fintanto che accanto a me si accomoda una bellissima ragazza dai capelli lisci e mori, dagli occhi neri e profondi, che mi strega con un bellissimo sorriso che ricambio istintivamente. E’ allora che riesco a comprendere appieno anche l’Eco romantico e ciò che ho fatto mio, leggendolo; l’intellettuale stregato dalle bellezze femminee e non solo teoretiche, che, di tutta la sua esistenza, non ricorda tanto i premi ricevuti dai mirabolanti festival tedeschi quanto, piuttosto, evento evocato con voce profonda e impercettibilmente addolcita, il suo matrimonio avvenuto in Germania. Fa piacere sentirgli dire di essere un europeista convinto, che prova ataviche emozioni quando, viaggiando per un altro Stato, oltre confine, non è più costretto ad esibire un lasciapassare come vent’anni prima.

 Arrivato sul palco tra interminabili applausi, Eco inizia a leggere la lezione, volta a istruirci nella comprensione dei piani di lettura che riguardano i personaggi di un romanzo: quelli storici, realmente esistiti, contrapposti a quelli di finzione, collocati all’interno di un reale periodo storico. E’ fondamentale, l’analisi, per capire quanto i personaggi storici, quelli realmente esistiti, possano esserci stati tramandati stravolti e fasulli dagli scrittori storici che li hanno protratti arbitrariamente. A differenza dei personaggi di finzione, che canonizzati all’interno della loro vicenda, del loro universo finito, con criteri inopinabili, mai più, potrebbero essere controvertiti in alcun modo, né da opere apocrife né, tantomeno, da pretestuose e chirurgiche tesi di laurea che vorrebbero risultare originali.

 Ognuno di noi, presente in sala, vorrebbe interromperlo e muovergli l’obiezione che, paradosso al quale il Professore già risponde nello stesso enunciato, fintanto che abbiamo la possibilità di parlare con l’autore stesso di un suo romanzo, egli potrà dirci che fine ha fatto la Sacra Sindone contraffatta di Baudolino, ad esempio. Ed è proprio questo il vero paradosso; perché la nostra smania, di saperne ancora e ancora, non ha nulla a che fare con quanto ogni personaggio di finzione sia (de)finito; è piuttosto quel desiderio voluttuoso di saperne, e poterne sapere, ancora e ancora, attraverso il suo autore che amiamo. Nessuno, allora, può spezzare l’incantesimo che si è creato; si ascolta la magistrale lezione senza che voli una mosca, pendendo da quelle parole; perché è così, sentendo dalla stessa (e vera) voce di Guglielmo e di Baudolino, finalmente, che la nostra anima di lettori innamorati dei capolavori di Eco riesce a riassaporare quelle emozioni iFoto-20-09-14-19-55-15nebrianti, provate mentre ci perdevamo nelle vicende dei suoi romanzi.

 Terminata la conferenza, ormai, davanti all’uscita del Teatro, è giunto il momento dell’incontro personale, approfittando della sessione degli autografi. Avendo l’accredito stampa, e la dritta giusta, ho la fortuna di arrivare al banchetto prima degli altri. Il Professore è più cordiale che mai; gli apro davanti la mia fedele copia da firmare e lo ringrazio vivamente per aver prodotto quel miracolo letterario, insieme a tanti altri. Mentre gli stringo la mano, forse, percepisce quanto abbia significato per me quello scritto, assieme alla possibilità, finalmente, di dirglielo; quindi mi ringrazia, dicendomi quanto ami guardare negli occhi le persone che incontra: gli leggo la profondità dell’animo in quello sguardo e tutta la sincerità di quello che mi sta dicendo. Non c’è altro tempo purtroppo, perché, in quei brevissimi istanti, dietro di me, si sono già accalcate centinaia di persone spinte dal mio stesso bisogno di incontrarlo.

 Vado e mi allontano felice. Non potrei volere di più, sapendo di aver stretto la mano contemporaneamente ad Aristotele, Guglielmo d’Occam, Tommaso d’Aquino, poi a Sue, Thoreau, Twain, Proust e Kant. Per quanto egli ne porti l’eredità, per quanto egli sia uno di loro. Uno dei più grandi. A pensarci, mi emoziono ancora e quel ricordo non può che diventarmi confuso e sfocato. Pare già così lontano, appena svolto l’angolo da dove ho potuto incontrarlo. E ora che mi ritrovo a scriverne, sperando di non dimenticare nulla, con la mano che mi trema ancora come prima di stringere la sua, sento il petto pulsarmi, pieno d’orgoglio. Eppure di quel grande incontro, l’unica cosa che riesco a ricordare chiaramente, senza ombra di dubbio, sono gli occhi bellissimi e profondi della fanciulla mora che mi si sedeva accanto in teatro, della quale “non sapevo, e non seppi mai, il nome.”

 

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