Ugo Pierri: tra ironia e satira

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Ugo_Pierri_05Ugo Pierri, nato nel 1937, è un pittore inediale, un poeta espressionista-crepuscolare e uno scrittore di racconti, che vive e lavora a Trieste.

Perché ha deciso di dedicarsi al disegno satirico?

Non mi sono dedicato solo al disegno satirico… La satira è una risposta al mondo che ci circonda e che ci opprime da ogni lato, e dal quale io mi difendo così: tentando di contrastare verbalmente; anche se, il più delle volte, è una battaglia persa. Dico sempre: sono ammalato di sansonismo, pur non essendo Sansone, oppure Don Chisciotte. Non voglio star zitto: tanto i calci nel sedere non te li toglie nessuno e allora è meglio parlare, esprimersi. Io mi esprimo attraverso il disegno, perché mi piace disegnare qualsiasi cosa: Pinocchi, tarocchi… e lo faccio tuttora, anche se sono vecchietto; è quello che so fare meglio e non è un mio merito: è una dote che mi è stata regalata. Io disegno, un altro zappa la terra, e via discorrendo; ognuno ha il suo talento.

Che tecnica utilizza nei suoi lavori?

Uso tutte le tecniche, però non amo tanto la pittura ad olio; anche se ho fatto molte mostre con dei miei quadri ad olio. Preferisco i colori sciolti in acqua. L’acqua è un mio alleato potente: qualsiasi colorante, dai colori per stoffa, per legno, per pellicola, o addirittura il caffè o il pomodoro, cioè qualsiasi sostanza colorante, la mescolo con l’acqua. E come supporto uso quasi sempre la carta.

Ugo_Pierri_07Dipinge su supporti di dimensioni grandi o piccole?

Ho fatto quadri anche di tre metri, però – a parte il fatto che adesso la mia schiena non resiste all’incurvatura – preferisco far dieci piccoli pezzi, piuttosto che un pezzo grande: sono curioso di vedere rapidamente il risultato; in questo sono un po’ come i bambini e non è male questo essere bambino, e anche se l’età pesa, ho tante curiosità.
E poi, non essendo, come pittore, strettamente legato al mercato, posso fare quello che voglio; se vendo sono contento, però non sono obbligato a vendere, né devo sottostare alle indicazioni dei galleristi. Faccio quello che mi capita e sono contento anche quando faccio semplicemente un disegno per i miei nipoti.

Lei ha frequentato una scuola d’arte e ha avuto come insegnante Enzo Cogno, un importante artista triestino. Cosa si ricorda di lui e di quel periodo?

Di lui ricordo molte cose… Io ero un allievo atipico: ho fatto prima il liceo e dopo, siccome giocavo a calcio, sono andato alla scuola d’arte per esser più libero. Là c’erano tanti ragazzi davvero molto bravi; è stata una scuola stupenda. In molti si sentivano artisti, io invece ero uno che prendeva tempo, però ho imparato alcune cose importanti. Agli inizi della scuola ci si sporcava le mani: in laboratorio si imparava a fare i colori, la tela, l’affresco, l’incausto; più che un artista uno diventava un specie di artigiano. In quel periodo la mia passione era il calcio, al quale dedicavo tanto tempo; però qualcosa, della scuola, mi è rimasto. Montenero, un vecchio critico, di quelli bravi, mi ha detto che ero un allievo atipico della scuola: mentre gli altri erano più decoratori, io, invece, ho tentato sempre di esprimere me stesso. Come ho detto prima: non penso al fruitore, faccio le cose per me; però sono contento se ciò che faccio piace. Ho fatto moltissime mostre, ho scritto libri, ho fatto di tutto. Sembrerà un discorso molto vanesio, perché, in fondo, penso che tutti vogliano far vedere ciò che creano. In primis si fa per sé, e poi si mostra: così ho fatto anch’io – se no, non avrei fatto mostre, scritto libri, e disegnato. Con i miei disegni non voglio né lanciare messaggi, né dogmi: a me interessa disegnare per dire qualcosa; mi piace colpire chi sta sopra di me, chi prevarica la povera gente, chi si crede chissà chi, e che frega gli altri – cerco di colpire questa gente, col mio pennino.

Ugo_Pierri_02Nei suoi disegni c’è sempre un velo di ironia; per lei quant’è importante l’ironia nella vita?

Anche l’ironia è una dote innata. Credo che non si possa parlare seriamente con chi non vuole ascoltare, con chi ti mette i piedi in testa, con chi ti frega, con chi ti ipertassa, con chi dice di aiutarti invece ti raggira. Voglio essere fuori dal coro: tiro le mie frecce, che naturalmente vengono schivate, e che mi procurano dei bei calci nel sedere; però mi piace essere me stesso, e non voglio essere servo di nessuno.

Ho visto sul libro “Passeggiata armata” di Anita Pittoni, che lei ha fatto le illustrazioni. Ha conosciuto Anita Pittoni?

Sì, certamente!

Che tipo di donna era?

Terribile (sorride), però mi ha aiutato molto. Lei voleva in tutti i modi darmi una mano, ma, in quel periodo, io recalcitravo: ero concentrato sul football, che per me era il cielo. Ho giocato anche in qualche squadra superiore, però non avevo la testa per fare il professionista: il calcio è un lavoro. Ho giocato anche in serie C, però per poco: non sono mai stato un campione, anche se facevo delle belle azioni. Dopo ho giocato sempre per divertimento, però il calcio, come professione, è un lavoro serio e anche duro: puoi avere grandi soddisfazioni, ma è una fatica notevole.

Ugo_Pierri_06La “poetessa Trauber” (Anita Pittoni) le ha fatto conoscere tanti personaggi importanti…

Sì, ne ho conosciuti davvero tanti. Tutti gli artisti, i critici, i pittori, i musicisti, che venivano a Trieste, per parlare al Circolo della Cultura, passavano sempre da lei. Anita conosceva il mondo intero; ha cacciato molta gente da casa sua, come Damiani, Cecovini, Emili, che era un bravo poeta; erano persone di cui lei non si fidava. Lei aveva un buon naso, per queste cose. Era molto letterata, nietzschiana, ma anche un’ottima artigiana: ha fatto dei lavori splendidi, per esempio ha realizzato un arazzo per il Duce: un grande pezzo di filato color rosso amaranto, con le aquile in filo d’oro. Era bravissima, una grande lavoratrice, una francescana, una donna semplice; però pretendeva che gli altri fossero in riga. Lavorare, per lei, era molto importante: il lavoro rende liberi. Molti chiamano il “Salotto Pittoni”, ma se lei avesse sentito questo, si sarebbe incavolata moltissimo, perché casa sua era un luogo di lavoro, e lì, ho incontrato molta gente importante. Tanti, però, andavano da lei unicamente per essere aiutati: prendevano quel che c’era da prendere e via…

L’incontro con un artista che le è rimasto particolarmente impresso.

È quello con Guttuso, un bravo pittore, che con me si è dimostrato molto generoso. Guttuso era venuto a Trieste, assieme alla sua prima moglie, la Contessa Mimise, in occasione di una mostra di Maria Lupieri (un’amica di Anita Pittoni) ed è proprio lì che l’ho incontrato. Ero andato a cena con Anita, Mimise e Guttuso; lui ha acquistato due miei disegni e mi ha detto: “Tu devi venire a Roma con me. Ti presto il mio studio”. Io non ci sono andato e Anita si è arrabbiata tantissimo.

Mi sembra di aver capito che Anita Pittoni è stata una figura importante, nella sua vita…

Sì, Anita mi aiutava perché credeva in me. Lei aveva un grande potere in città: scriveva gli elzeviri su “Il Piccolo”, aveva una rivista radiofonica, una casa editrice, e conosceva tantissime persone. Una volta mi aveva fatto vincere un premio, ma io non ero andato alla cerimonia di premiazione, perché non lo sentivo mio: in un certo senso, mi era stato regalato.
Alla fine degli anni Sessanta, Anita mi aveva mandato a Venezia; e grazie all’incontro con Comisso ho fatto una mostra in un’ importante Galleria. Anita Pittoni cercava di mandarmi un po’ dappertutto, però io tergiversavo e dopo ritrovano a correre e a giocare. Lei era contenta di me, perché apprezzava la mia sincerità. Mi ha fatto disegnare per certe riviste, e nel ’71 la famosa rivista “Persona” le aveva commissionato un numero monografico su Trieste e lei ha scelto di inserirci pure alcuni miei disegni – anche se non ero ancora tanto conosciuto – destando l’ira dei grandi artisti.
Sono molto contento perché, di recente, il signor Cepach, del Museo Sveviano, ha trovato nell’archivio Pittoni alcune lettere che io le avevo scritto; non sono lettere artistiche: sono disegni, punzecchiature…Forse adesso, con questo materiale, faremo un libricino.

Era anche una brava sarta: ho visto dei suoi abiti davvero molto belli….

Era una creatrice. Negli anni prima della guerra, lei aveva 40-45 lavoranti, ma non in una fabbrica: aveva, semplicemente, un tavolino dove disegnava i modelli per i vestiti, segnava i punti, e poi consegnava il tutto alla lavorante, che portava il lavoro da fare a casa. Oltre a essere un’ artista, Anita era anche molto pratica. Purtroppo, negli ultimi anni della sua vita, non stava molto bene: si era rotta il femore e poi non ci stava con la testa; perciò era stata portata a San Giovanni ai lungodegenti, dove c’erano delle camerate con sedici letti: un lager…povera Anita! Trieste è stata davvero molto ingrata con questa grande donna.

Era molto avanti, anche come pensiero…

Secondo me sì. Per me, i suoi libri sono la più bella sfornata del dopoguerra, qui a Trieste. La sua casa editrice (Lo Zibaldone n.d.s.) era proprio di gran gusto, di grande stile. Lei curava tutto: ogni virgola; non stampava mai in nero, ma in nero con una puntina di rosso, o con una puntina di blu. Era una donna brava, ma, ripeto, terribile: a volte, mi chiedeva di accompagnarla in tipografia, e ricordo, che quando si entrava, tutti si mettevano le mani tra i capelli: lei per una puntina, era capace di far rifare il mondo; ma, d’altra parte, voleva un lavoro ben fatto.

Come ha conosciuto la Pittoni?

Era venuta a casa di mia zia e, vedendo un mio quadro sul muro, ha chiesto: “Di chi è questo?”, e mia zia le ha risposto: “È di mio nipote”, e Anita: “Mandamelo”; da quella volta “croce”: è bello fare il pittore o l’artista, però è anche molto doloroso: hai frustrazioni, come tutti gli uomini del resto, però l’artista ha sempre idee particolari, gli piace essere valutato; e quindi la lotta non finisce mai. Io ho anche molto senso critico e allora salvo poco: solo i cretini salvano tutto, secondo me. Bisogna essere in grado di capire se un disegno, nel mio caso, è buono o no. Mi piace quello che ha scritto di me Mauro Caselli – un buon poeta e anche uno studioso di letteratura. Lui ha detto: “Ugo Pierri è un artista che ha pudore”. È vero, però non sono ipermodesto, e non sparo bordate, o meglio le sparo soltanto contro i grandi, che spesso sono sopravalutati.

Ugo_Pierri_03L’atmosfera che si respirava quando tante persone – come Ugo Guarino – collaboravano assieme per cambiare la situazione del manicomio, era particolare. Lei ha conosciuto Guarino?

Sì, l’ho conosciuto bene. Guarino aveva fatto una splendida mostra con dei totem (chiamati i “Testimoni” nds), realizzati con i letti vecchi e le sedie, del manicomio; una mostra molto bella, e mi dispiace che i totem siano andati perduti. Inoltre, lui ha fatto anche parecchi libri sulla libertà dei matti. Anch’io ho lavorato a San Giovanni, per alcune guide dell’ASL, facendo molti disegni; a Milano avevo fatto anche una mostra con quei disegni – l’aveva organizzata la Provincia. A San Giovanni, mi chiedevano sempre: “Vieni a lavorare con noi”, ma io non ho mai voluto, né potuto, perché mi carico delle sofferenze altrui e questo mi fa star male assai, e allora devo difendermi in qualche modo. Però, a San Giovanni, hanno aiutato molta gente, hanno tolto molte persone dalla gabbia e questo è importante. Peccato che adesso, non essendoci i mezzi, il progetto non possa essere realizzato del tutto, anche se c’è l’idea.

Per lei, quanto è importante il cinema?

Il cinema secondo me è fondamentale. Io amo quasi unicamente il bianco e nero, perché è un cinema espressionista; anche i polizieschi, mi piacciono molto. Il cinema è il disegno in movimento: è l’arte che si muove. Il bianco e nero mi piace tanto, anche perché, in quel periodo, c’erano sceneggiatori molto bravi.

Sì, sia attori che sceneggiatori…un “dietro le quinte” molto attivo.

Sì e poi, per esempio, nel cinema americano, erano tutti bravi: attori, comparse, anche quello che puliva il set: erano tutti dei professionisti. E i film venivano scritti da persone importanti.

Ugo_Pierri_01E cosa mi dice di Vincent Price?

Beh…Vincent Price, che dire…non si può non amarlo! A me piace molto: è un bravo attore, e ha una maschera: lui quando fa i film dell’orrore è talmente grottesco che diventano allegri, quasi…

Quasi ridicoli…

Sì. Price è un attore realmente bravo. Ha fatto centinaia di film seri: dai “I tre moschettieri”, a “I Dieci comandamenti”, a “Bernadette”. A me piace anche perché la sua voce originale, in americano, – lui è nato a Saint Louis – è molto bella. Adoro anche Totò, e non capisco quelli che non lo apprezzano. Come ho già detto precedentemente, dico sempre quello che penso; una volta ho perso anche l’occasione di fare una mostra, perché ho sottolineato, in maniera non tanto elegante, che non è possibile non amare Totò. Preferisco farmi riconoscere per quello che sono, anche perché ho una potente educazione cattolica, e non mi piace la falsità. Non amo i cattolici, però il Vangelo sì, mi affascina e credo che sia il messaggio più avanzato.

Cosa ne pensa del Vangelo di Pasolini?

Il suo Vangelo è magnifico, perché non è enfatico, non è come quello di Zeffirelli, che è pur sempre bello, ma è finto, è un ipersantino; ripeto, un film bellissimo, ispirato ai quadri dell’antichità, ma molto lontano dalla realtà. A me piace più il dramma che ci riguarda, che è più vicino a noi: i voli sono spesso e volentieri fantasticherie; la fantasia è un’ottima cosa, però io amo i film che “fanno star male”, che ti danno qualcosa, che senti che c’è un’umanità sia nello schermo, che davanti lo schermo. Sono molto etico, ciò non vuol dire che io sia una brava persona, però ci tengo all’etica. Per un principio combatto con le mie poche armi e a volte ci perdo; ma non intendo rinunciare alla possibilità di esprimere le mie idee. Possono toglierti tutto, ma non le tue idee, a meno che non ti distruggano, e allora confessi l’inconfessabile.

Trieste una volta, Trieste oggi, quale preferisce?

Trieste è sempre uguale. Una volta erano altri tempi, non si può dire migliori; ma il fatto che abbiano tolto le navi ad un importante porto, che il cantiere non funzioni più, che tante industrie abbiano chiuso i battenti, non è stato sicuramente positivo per questa città. Tempo fa un signore ha detto a mia moglie che Trieste è una città in declino, ed è vero. Ha avuto anche dei periodi importanti: era il porto dell’Austria, poi un importante porto italiano; e anche quando c’era il Governo Militare Alleato si stava bene: giravano soldi…Dopodiché c’è stato un lento declino.
La gente si illude di essere tanto acculturata e generosa, ma non lo è. Io ho sempre scritto che Trieste è una città avara, una città “de bottegheri” (di commercianti). L’Occidente, per definizione stessa, occide: deve cadere; il mio sarà anche un gioco di parole, ma è così. Sono caduti i grandi imperi, come Roma, che era la padrona del mondo, e tutto ciò perché il benessere corrompe. Bisogna essere dei lungimiranti e quasi santi per non cadere nel vizio della corruzione. Ma noi siamo qua e dobbiamo vivere adesso.

Per lei, quanto sono importanti le tradizioni locali?

Non sono mai stato troppo legato al territorio: ho sempre guardato altrove, ho pensato che si dovesse imparare dai grandi maestri, ho letto i grandi libri, i classici, e istintivamente ho oltrepassato il confine, senza saperlo, ma credo di aver scelto bene. Certi sono anche bravi, ma vivono…

Nel proprio orticello…

Sì, si possono fare cose splendide anche nel proprio orto, però…Io Trieste l’ho sempre sputtanata e ho lottato sempre contro tutti: letterati, artisti, eccetera. Vivo relativamente solo: parlo con tutti, ma poiché mi esprimo chiaramente e a volte duramente, sono stato un po’ messo da parte. Credo che l’importante sia dare quello che si ha…

Ed esser se stessi…

Io cerco di esserlo, però dopo hai sempre un tarlo dentro, che dice: “È meglio essere se stessi ed essere in un angolo, oppure fingere ed essere in cima al monte?”; si lotta sempre. Le strade sono sempre quelle: se vuoi arrivare in qualche posto devi percorrerle, sono percorsi obbligati. Importante è incontrare le persone che credono in te, che apprezzano il tuo lavoro come è successo a me con Anita Pittoni, che quand’era in forma, mi ha aperto molte strade.

Ugo_Pierri_09Sta lavorando a qualche progetto?

Sì, dopo i disegni che ho fatto sulla Grande Guerra, ho cominciato a scrivere un lavoro per il teatro sempre sullo stesso tema. Non è un elogio del fante, della vittoria, è una cosa seria, dura. Ho scritto alcuni versi che parlano proprio della trincea, del soldato che muore, del soldato che perde un braccio, del soldato che bestemmia la Madonna, Dio. Ho descritto la Guerra dei vinti, della povera gente, alla quale sono sempre vicino: per questo sono così mal visto, perché sono uno che scende in piazza, che protesta. Quando lavoravo nella fabbrica Sadoch, disegnavo babbi Natale, fiorellini, e avrei potuto restarmene tranquillo nel mio ufficio a lavorare, invece ho preferito scendere in piazza a difesa degli operai, e mi hanno licenziato. Però io ho questa attitudine innata verso il più debole, questa ricerca di socialità, di minima giustizia. Se dovessi tornare indietro rifarei le stesse cose. Le fabbriche sono dei lager, dove la gente spesso viene sfruttata, adesso ancora più di prima, perché il Sindacato ha perso la sua forza, è questo è un male.

Ringrazio l’artista Ugo Pierri per la divertente chiacchierata.

Nadia Pastorcich © centoParole Magazine – riproduzione riservata

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