Valentino Pagliei: l’arte dell’incontro

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Valentino Pagliei phNadiaPastorcichValentino Pagliei, nato a Terracina (LT), è un attore di teatro diplomatosi presso l’Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe di Udine. Ha studiato teatro con Gabriele Ferzetti, Jurij Alschitz, Danio Manfredini, Françoise Khan, Giuseppe Bevilacqua, Giuseppe Battiston, Pierre Byland, Geraldine Baron, Pippo Del Bono; mentre danza classica e contemporanea con Michele Abbondanza, Anita Bucchi, Virgilio Sieni, Julie Stanzak e Irène Tassembedo; infine violino e contrabbasso con Antonio Nicchiniello e Andrea Zulian.
Nel 1990 ha debuttato in teatro con “Girotondo” di Arthur Schnitzler, regia di Marco Angelilli. Dal 2001 ha iniziato la sua collaborazione con La Contrada, recitando in tutte le produzioni di Teatro Ragazzi. Ha lavorato per il cinema, in varie fiction per la RAI, per la TV Nazionale Austriaca, per quella Tedesca e per History Channel, e in alcune registrazioni radiofoniche.

Lei è nato a Terracina; come è finito poi a fare l’Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe a Udine?

È una domanda giusta (sorride). Sono nato a Terracina (Latina) che è stata la terza colonia fondata dai romani su preesistenze volsche. Poi da lì è nata questa piccola cittadina medievale rimaneggiata in epoca moderna, molto scenografica, molto teatrale, tutta da scoprire.
Da recenti scavi è emerso che sotto la vecchia casa dei miei nonni materni si trova il teatro romano antico di Terracina; Inoltre nella parte bassa della città c’è anche l’anfiteatro antico, nei pressi del quale si trova la casa di mia madre. Quindi la mia famiglia è letteralmente nata sul teatro che le ha fatto per così dire da culla! Questa cosa blandisce un po’ la parte vanitosa di me ma soprattutto mi affascina: già solo pronunciare il nome “teatro”, mi riempie di emozione.
Posso dire di fare un po’ l’amore con Terracina, in particolar modo con i suoi luoghi storici.
Lì sono nato e da lì è nato il viaggio che poi mi ha portato a Trieste. Iniziai col trasferirmi a Roma. Studiavo giurisprudenza e nel frattempo facevo tanta attività teatrale così mi accorsi che il teatro mi attraeva molto come mezzo di indagine su di me, sugli altri e sul mondo. Ad un certo punto mollai legge, e tentai il provino alla Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano. Non mi presero, ma devo ammettere che ci andai poco preparato.
A Udine c’era la giovane Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe, che sembrava promettere bene. Mi presentai, questa volta preparato, e mi presero subito. Ricordo che arrivai accompagnato dal mio violoncello, presentai brani recitati, unendo poesia e musica.

Questo più o meno in che anni?

Questo accadeva nel 1997. Ho deciso un po’ tardi di trasformare la mia passione in professione.

Valentino Pagliei PhNadiaPastorcichUno dei suoi insegnanti è stato Gabriele Ferzetti. Cosa ricorda di lui?

(sorride) Di Gabriele Ferzetti ricordo la capacità, solamente con la sua presenza, di essere sintetico, di farti capire immediatamente, con uno sguardo e con poche parole, cosa voleva. Aveva un’intensità fortissima e diretta.
Quando vivevo a Udine e frequentavo l’Accademia, feci una breve incursione a Trieste per partecipare ad un corso organizzato dal Politeama Rossetti, tenuto da Gabriele Ferzetti.
Devo dire che il solo giustappormi al respiro di un grande, frequentarlo, anche se per poco, mi ha insegnato molto; mi è stato d’esempio vedere come si approcciava al testo teatrale, come percepiva le cose e come stava al mondo. Si capiva che lui era una spugna propositiva: assorbiva tanto da te, perché voleva carpire le tue doti artistiche; e poi ti chiedeva di appropriarti approfonditamente di quello che stavi recitando: se stavi tentando di recitare Cechov voleva capire l’immensità del suo pensiero e giustamente pretendeva che tu glielo facessi capire. Ti trasmetteva quest’urgenza, questa necessità. Ti suggeriva pure delle chiavi di lettura per farlo. Lo ricordo con affetto e con un’enorme gratitudine, perché mi ha insegnato come respirare a teatro.

Nella recitazione di Ferzetti si notava un’impronta cinematografica?

Io l’ho conosciuto come mentore di un corso teatrale, quindi non era lui che si mostrava, però ci ha fatto dei brevi esempi. Posso dire che in lui ho visto una sintesi mirabile: era teatrale al cinema senza essere fastidioso. Ci credevi, ci credevi veramente alla sua interpretazione.

Lei ha studiato danza classica e contemporanea. Come si è avvicinato alla danza?

Questo dipende dall’educazione avuta dai genitori. Da ragazzino iscrissero me e mia sorella a danza classica; quindi per me era naturale conoscere le posizioni di base. Ho imparato che esprimersi con il corpo era divertente, terapeutico e liberatorio. Dare una forma al movimento mi ha fatto scoprire parti di me che non conoscevo.
Ho iniziato a studiare danza classica a sei anni e ho continuato fino ai dodici. Quindi la colpa è dei miei genitori (sorride). Grazie a questa esperienza ho scoperto la mia propensione per la danza che anni dopo, in Accademia, mi è stata utile: si dovevano seguire dei corsi improntati fortemente sulla danza, per preparare il corpo dell’attore ad ogni evenienza, ad ogni possibilità, oltre ovviamente ai corsi di recitazione, commedia dell’arte, dizione, storia del teatro, storia della musica, antropologia teatrale.
Lo strumento di lavoro dell’attore è anche il corpo, oltre alle emozioni, al cuore, alla cultura, alla testa e allo spirito. E tutte queste cose vanno coltivate e curate. Devo dire che ho avuto degli ottimi maestri, quelli stessi che poi mi hanno chiamato per ventura, a sostituire un ballerino che in quell’occasione non poteva esibirsi.
Mi è capitato varie volte nella vita di entrare a far parte del sogno che vedevo davanti a me; per sogno intendo degli artisti che ho visto esprimersi e che mi hanno colpito per la loro maestria,tanto da farmi pensare a quanto sarebbe stato bello poter recitare, danzare o suonare come loro e con loro per carpirne il mistero. A volte, quando ho desiderato fortemente una cosa, sono riuscito ad appropriarmi di quel mondo, diventando parte di quell’entourage, prima come fan, poi come spettatore accanito e affezionato, e infine come componente di quel gruppo artistico.

La danza classica è una disciplina che dà molto, e che non lascia libertà ai movimenti: bisogna sempre controllarsi, tutto dev’essere perfetto, elegante; ma ti dà anche un senso di leggerezza che, secondo me, rimane nella vita, anche se uno poi smette di fare danza classica. E ciò aiuta…

Valentino Pagliei PhNadiaPastorcichÈ vero, hai colto una verità. Nei movimenti rimane una grazia, che si conquista con fatica. A sei anni non si riesce a capire bene questa disciplina, tutto è un po’ fastidioso. Ricordo la maestra di danza classica Wanda Silvestre che batteva con piglio energico il bastone sulle tavole di legno della sala danza per scandire il ritmo di ogni esercizio e per ottenere il massimo da noi; non si poteva sgarrare! C’era anche un pianista, il maestro Belisario, che suonava rigorosamente dal vivo per accompagnarci negli esercizi. Avendolo lì presente, potevamo chiedergli di suonare qualsiasi musica; una cosa oggi economicamente impraticabile, purtroppo.
Questa disciplina ti fa conoscere un po’ i tuoi limiti. Finché è una cosa che senti che ti fa bene, è giusto continuare, mentre quando diventa una costrizione, allora è meglio fermarsi: preferisco vivere, respirare; però quell’impostazione lì mi ha formato sia il corpo che la mente.
Avere un corpo allenato, disponibile mi ha poi aiutato per gli ingaggi come danzatore, perché conservavo le conseguenze positive dello studio della danza: il mio corpo era malleabile, grazie a quel lavoro che avevo precedentemente esplorato. Il che è la conferma che niente si inventa: performance di alto livello si ottengono solo con buone e ampie basi e dopo tanto studio.
È stato altamente formativo e professionalizzante frequentare la danza classica. Quindi, quando avevo sei anni, la scelta quasi incosciente dei miei genitori di mandarmi a danza classica in realtà ha permesso di costruirmi una personalità artistica più completa.

Cosa mi dice della sua passione per il violino?

Il violino – al contrario della danza classica – era una mia passione. C’era già un violino in casa, quello di mia madre. Papà, invece, era un grosso appassionato di musica classica. Ricordo che facevamo delle “sedute di ascolto” piacevoli, tutti assieme (papà, mamma, io, mia sorella e mio fratello); ci mettevamo ad ascoltare Beethoven, Shostakovich, Dvoràk – quest’ultimo piaceva a papà particolarmente. Mio padre raccontava di come venisse puntualmente assalito dall’emozione che scaturiva da alcuni passaggi musicali e di come non potesse fare a meno di tremare – chissà quanti ricordi gli si scatenavano all’ascolto di quelle composizioni, che saranno state senz’altro collegate a momenti particolari della sua vita. Io lo guardavo e pensavo che stesse esagerando. Ma ora, dato che la musica, l’arte e il teatro, sono diventati la mia vita, lo capisco; capisco che si può essere rapiti da un brano musicale, da un brano recitato, da una coreografia… che non è altro che il rapimento della bellezza.

Come si è avvicinato allo studio della musica?

I miei decisero che io, mio fratello e mia sorella avremmo dovuto avere un’educazione musicale e quindi ci misero tutti e tre a studiare pianoforte con una sola insegnante… non so come facesse! Veniva a casa nostra, e studiavamo pianoforte. Non so se saltavamo di più sopra l’insegnante o sopra al pianoforte (sorride). Io, però, mi resi conto che, non so per quale motivo atavico, ero innamorato del violino. E allora dissi ai miei genitori che avrei voluto studiarlo.
Mia madre mi ripose che c’era quello suo, di quand’era ragazzina. Trovarono un insegnante e così iniziai. Fu una delle mie prime scelte da adolescente, che voleva diventare adulto.
Furono begli anni, promettevo bene. poi però non ho voluto continuare, perché il teatro mi attraeva di più. Trovo che il teatro sia una disciplina più completa: il musicista senza la cognizione dell’espressività corporea e delle azioni fisiche, senza la presenza scenica tipica dell’attore, è come un pinguino ingessato vestito in frac – senza nulla togliere ai meravigliosi musicisti classici di tutto il mondo. Io sentivo che non bastava l’alta specializzazione musicale, ma che ci voleva anche la capacità di sapere interpretare testi, emozioni e pensieri.

Però, comunque, ha continuato a suonare…

Valentino Pagliei PhNadiaPastorcichNon riesco a fare a meno della musica; ci ho provato, ma non ce la faccio. Mi piace sfidarmi in quella che io chiamo l’arte dell’incontro, ovvero nell’incontro con altri artisti, in questo caso musicisti, perché ogni musicista porta un suo patrimonio di valori, di idee, di pensieri, di sogni, di speranze, e di critica, che mi piace assorbire.
Qualcuno che dice esattamente quello che io vorrei dire, e meglio di me, solamente con una canzone è ad esempio Stefano Schiraldi, cantautore triestino con cui ho inciso recentemente un CD.
Io mi innamoro della musica e inizio a seguirla con il contrabbasso; chi si fida della mia capacità di suonare il contrabbasso, e decide di fare questa follia con me, io lo seguo.
Ho suonato in vari gruppi musicali, dove – lo ripeto – la sintesi di tutto è l’arte dell’incontro: devi incontrarti con dei musicisti e realizzare qualcosa assieme, per creare un gruppo affiatato, una famiglia musicale, un movimento sonoro; c’è subito uno scambio di musicografia, di bibliografia, di esperienze foniche. I riferimenti dei vari membri di un gruppo dipendono dalle abitudini, dagli ascolti; ciò comporta uno scambio in cui si scoprono linguaggi, gruppi e modi di fare musica nuovi. E questo mi tocca particolarmente: io che venivo da Roma, a Trieste ho trovato tutt’altra cultura.

L’arte è una disciplina umanistica, di conseguenza ci vogliono le persone, perché funzioni…

Esatto, ci vogliono le persone. E poi c’è bisogno dell’arte: una volta che hai il “prodotto”, il grumo di senso – puoi chiamarlo canzone, brano musicale, pezzo recitato – pronto per essere donato, allora puoi iniziare a girare, a cercare delle date; oppure vieni chiamato perché magari sei in sintonia con un festival, con una piazza, con una città, con un determinato messaggio. Lì ti arricchisci e porti il tuo messaggio, ma ti arricchisci pure del messaggio e dell’accoglienza degli organizzatori e della gente.

Qual è il suo repertorio?

Il mio repertorio base, ampliatosi proprio venendo a Trieste, è quello della “Maxmaber Orkestar”, quindi balcanico, klezmer e zingaro. Ambisco al jazz, perché non l’ho mai approcciato completamente. Fa parte del mio repertorio anche il cantautorato quindi, in questo caso il mondo sonoro di Stefano Schiraldi.
Abbiamo fatto un’incursione con il “Trio Caterina”, una formazione meravigliosa con Andrea Pandolfo alla tromba – fondatore dei Klezroym – e Tania Arcieri – collaboratrice di Ambrogio Spargana – all’organetto. Con questo gruppo, grazie alla conoscenza della musica antica di Andrea, abbiamo eseguito dei pezzi originali che strizzavano l’occhio alla musica popolare e alla musica medievale-rinascimentale. Anche questo è un altro viaggio, perché ogni epoca e ogni città suonano in modo diverso; e ti rendi conto di come si pensa in modo differente nelle varie epoche, a seconda delle possibilità che c’erano, anche quelle fisiche: una volta non si potevano fare concerti di musica elettronica, mentre oggi si può, con marchingegni elettronici, elaborare il suono live o aggiungere in una esecuzione dei suoni “non fisici” generati dal computer.

L’arte, quindi il teatro, la musica, il cinema, permette di tornare indietro nel tempo. È una sorta di macchina del tempo. Grazie alla lettura di alcuni testi, alla visione di certi film, si ha la possibilità di cogliere qualcosa del passato, che altrimenti non si noterebbe…

Sì, e allora, a volte, ci viene da ridere su come certe cose venivano considerate importanti e che noi oggi magari riteniamo superate. Però hai detto una verità: noi desideriamo tanto la macchina del tempo per esempio per andare a vedere come si viveva nelle diverse epoche. In realtà, dallo studio per mettere in scena uno spettacolo, o per suonare un brano, o per danzare una coreografia, tu puoi veramente andare indietro nel tempo, viaggiare nel tempo, e capire qual era lo spirito degli anni passati. Forse è proprio questo che cercano di fare gli scrittori, quando scrivono di una città o i drammaturghi quando cercano di descrivere una situazione: con quali parole restituirne lo spirito.

Ecco perché credo sia fondamentale mettere, accanto allo studio scolastico della storia, anche uno studio “artistico” del teatro, del cinema di una volta: la storia tende a nascere e a finire sui libri, mentre il teatro è vivo; quindi mostrare ai ragazzi uno spettacolo ambientato in un tempo passato permette, anche a chi è dotato di poca fantasia, di farsi
un’idea di come si viveva una volta, avvicinandolo di conseguenza alla storia.

Valentino Pagliei PhNadiaPastorcichEsatto, anche per capire il senso del nostro vivere oggi. Le cose che si danno per scontate, non lo sono; tutto è in continua evoluzione, perfino questa pietra su cui ci troviamo evolve, certo, più lentamente rispetto al mare o ad un’onda; anche la città è viva, la città cambia, i palazzi crescono, si trasformano dentro e fuori, e così accade anche a noi.
Se non ci esponiamo al cinema del passato e al teatro, che ci danno un’idea più completa di come si viveva a quei tempi e della condizione psicologica e fisica che c’era allora, non possiamo renderci conto del valore che hanno le cose che abbiamo adesso, che abbiamo trovato già belle e fatte. Un esempio sono le strade che sono state costruite: una volta, la costruzione di una strada era come attivare una connessione ad internet oggi, era una sorta di nuova app, che adesso ti permette di acquistare un biglietto da casa, senza andare a fare la fila. Se ti avvicini all’arte, riesci a cogliere il senso, il valore di quello che stai vivendo.

Mi viene in mente lo spettacolo “La notte delle paure”, un lavoro al quale ha partecipato, che si basa sulle leggende raccontate da persone anziane. Oggi, secondo lei, quanto è importante la testimonianza di un anziano per la società?

È sempre stata importantissima. Oggi ha meno importanza di una volta, perché crediamo che le banche dati elettroniche siano più importanti delle banche dati umane. Anche se le banche dati umane sono forse incomplete ed erronee, in realtà sono fondamentali.
Lo spettacolo che hai citato si riferisce a sette-otto anni di lavoro, esattamente ai miei primi anni come attore e, in questo caso, anche come aiuto regista, in un posto meraviglioso che è il Parco del Gran Sasso e dei Monti della Laga. Facevamo teatro spersi nel verde, basandoci su storie di quei paesi abbandonati: il centro Italia, per motivi vari, prima, e soprattutto dopo la guerra, ha subito uno spopolamento, perché la geografia del mondo, la storia del mondo, ha demografie variabili, a seconda delle possibilità economiche. Mentre nel medioevo, per un periodo, conveniva arroccarsi su colline alte perché si rimaneva più protetti dalle scorribande di banditi, di ladri o di eserciti di imperi che volevano conquistare l’Italia, dopo un po’, invece, la fame, la miseria, la ricerca di lavoro ha spinto fuori – come si dice dalle mie parti – il lupo dal bosco: la gente ha iniziato ad emigrare.
La cosa avvincente è che vennero ad assistere alla nostra resa scenica notturna, illuminata dalle fiaccole, molte delle persone che un tempo abitavano in quei paesi e dai quali avevano dovuto allontanarsi. Questi paesi erano ormai stati invasi da una folta vegetazione di alberi e arbusti; però i loro cimiteri annessi erano ancora parzialmente frequentati, con gli abitanti di una volta che saltuariamente si recavano a rendere omaggio ai loro cari, dopo essersi riaperti nel bosco il sentiero per raggiungerli, che nel frattempo il tempo aveva cancellato.
Tanti emigrati dall’Italia sono poi tornati, ma andando a vivere non più nel loro paesino bensì in città. L’associazione che si occupava del Parco, voleva fare memoria di questa storia, perciò ha promosso un laboratorio teatrale e un festival. Ha rintracciato molti degli emigrati anziani del posto e li ha messi a confronto con alcuni giovani attori, fra i quali c’ero io. Fu una rara e felice occasione di incontro tra anziani e giovani, sulle difficili condizioni di vita di una volta in paesini di montagna non facilmente accessibili e sul senso del raccontare e della vita.
Scoprire le speranze che questa gente aveva e rimetterle in scena, è stato magico, affascinante, anche perché, la gente da cui abbiamo raccolto i racconti è venuta a vedere lo spettacolo creato proprio sulle loro testimonianze.

Nel 2001 è arrivato a La Contrada. Com’è nato questo sodalizio che dura ancora oggi?

Ero piaciuto molto ad alcuni insegnanti in Accademia a Udine, tanto che questi mi hanno segnalato per un provino. L’ho fatto – è stato il primo provino dopo l’Accademia – e sono entrato nella grande famiglia de La Contrada. Questo, con mia grossa gioia – non stavo nella pelle – è stata la realizzazione di un sogno: primo perché si trattava di vivere a Trieste, che è una città sul mare, come Terracina: senza mare, non saprei vivere; non avrei respiro. È una cosa che ho atavica dentro di me; è qualcosa di ancestrale. Secondo perché entravo a far parte di una delle ultime compagnie di “Teatro all’antica italiana” quale è ancora adesso La Contrada, fondata da Ariella Reggio, Orazio Bobbio e Lidia Braico.
Ho potuto vedere all’opera un capocomico, un attore anziano, un attore caratterista, il primo amoroso, il secondo amoroso, la prima attrice, l’attor giovane, e cercare la mia strada.
Da subito mi sono sentito avvolto dalla professionalità de La Contrada, ma anche dall’umanità e dalla familiarità. Un equilibrio che mi ha fatto dire: “Quasi, quasi, qua ci rimango”. E poi ho avuto il piacere di conoscere delle persone che sapevano quello che facevano ed erano preparate.

Per esempio, Francesco Macedonio

Per esempio, un esempio a caso (sorride). Francesco Macedonio era straordinario, perché faceva un mestiere che, difficile da definire, è quello del regista. Macedonio voleva portare a casa il suo sogno: mettere in scena quello che lui cinematograficamente si era proiettato nella testa, dopo averlo pensato, preparando lo spettacolo, leggendo il testo, cercando di dare a chi veniva a teatro, un insegnamento, un valore aggiunto. Lui voleva che la gente andasse via dal teatro, avendo bene in mente quali sono le verità della vita, anche se alcune di queste sono crudeli. Voleva infondere negli animi la consapevolezza che si può scegliere di fare della propria vita una cosa migliore, bella, miracolosa, “affraternante” sebbene nella vita spesso si incontrino persone che non si comportano da fratelli.
Non riesco ancora a definire bene il mestiere del regista, però so cosa faceva lui con gli attori. Sapeva lavorare con gli attori bravissimi e bravi, con quelli meno bravi, con quelli che non lo capivano e con i “non attori” – era in grado di far recitare anche le pietre.
Una delle sue strategie messa in pratica con tutti, era parlarti talmente tanto del tuo personaggio, del suo modo di pensare e agire, delle sue relazioni con gli altri personaggi, del suo panorama esistenziale a tal punto che iniziavi “naturalmente” a pensare come quel personaggio, come lui lo vedeva. Un innocuo lavaggio del cervello con l’obiettivo non di plagiarti, ma di portarti alla verità e alle motivazioni del personaggio, in modo che tu, ad un certo punto, senza accorgerti né come, né perché, né quando – almeno questo è accaduto a me – ti ritrovavi a seguire i binari che lui ti aveva costruito; binari mentali, fisici e spirituali, come una partitura che lui ti passava. Quindi era faticoso, ma era anche una passeggiata, perché dopo andavi in scena sapendo cosa dovevi fare.

Quindi c’era tanto lavoro a monte…

Sì, tantissimo, lui lavorava almeno un anno per preparare le sue regie. Non è mai stato uno che voleva esibirsi, facendo il regista. Voleva creare un’opera d’arte, senz’altro artigianale, curata in profondità, in tutti gli aspetti; lo voleva fare a qualsiasi costo, indipendentemente dalla quantità di prove e ore di lavoro, addirittura sacrificando ore di sonno, come accadeva nei giorni immediatamente prima dello spettacolo.
Ciò che ricordo è la luce che aveva negli occhi. Ti ascoltava tantissimo; o si innamorava di te, perché vedeva in te delle cose che gli piacevano, sia come talento sia come persona, o non si innamorava, perché, anche se avevi talento, non gli piacevi come persona, tuttavia ti rispettava e ti faceva lavorare benissimo, però non entravi a far parte della sua cerchia di persone amate.

Anche Tullio Kezich è stata una figura importante, nonché un grande conoscitore del cinema. Lei ha avuto modo di essere diretto a teatro da Kezich. Cosa l’ha colpita di lui?

Di Tullio Kezich mi impressionava la sua precisione storica; era un’enciclopedia vivente: se gli facevi una domanda lui sapeva perfettamente la risposta, ma ricordava anche la fonte e in quale pagina di quella fonte, di quel libro, di quel film si trovava. Un po’ come Francesco, infatti insieme si trovavano bene.
C’era un enorme rispetto di Tullio nei confronti di Francesco e viceversa. Kezich l’ho conosciuto per aver recitato nel suo testo per il teatro “L’ultimo carnevàl” con la regia appunto di Francesco Macedonio, che è stata un’opera d’arte perché era impostata come tale. È stato uno dei momenti più alti dei lavori che sono stati prodotti da La Contrada. Le scenografie di Sergio D’Osmo erano fantastiche. Le scene non erano belle solo esteticamente, ma erano anche funzionali teatralmente, erano metaforiche, avevano più significati: il bello del teatro è che tu con una frase, con un gesto, con un panneggio puoi sottintendere strati di significati e questo, Tullio Kezich, lo sapeva benissimo; lo sapeva pure Francesco Macedonio, e lo sa benissimo anche Ariella Reggio.
Tu sentivi che c’era uno strato di pensiero, che il tuo personaggio era stratificato, che la tua frase voleva dire molte cose contemporaneamente: teatrali, metaforiche, letterali, e umane. Era come un dolce ben farcito…

Una crema carsolina…

Sì, esatto (sorride), nel senso che con poco ti nutre tanto. Nutriva sia la voglia di divertirsi dello spettatore sia la voglia di impegnarsi dell’attore, che la necessità di riflettere sulla storia e sulle vicende personali.

Dal teatro al cinema. Lei ha lavorato con Pupi Avati nel film “Il papà di Giovanna”. Da quella che è stata la sua esperienza, che idea si è fatto di Pupi Avati?

Il rapporto che io ho avuto con questo film di Avati è stato un po’ controverso, perché prima dovevo avere una parte, che poi non hanno girato – essendo lui un regista-autore può anche cambiare in corso d’opera.
Pupi Avati è una persona d’altri tempi: con me fu molto educato, molto corretto e questo fa sempre tanto piacere. Lavorai per una scena più piccola di quella concordata inizialmente, però ci fu un grande rispetto della mia professionalità. Mi insegnò anche delle cose; era molto paterno. E poi, lavorando con lui, entri a far parte di una storia importante: il suo cinema.
È stato davvero bello vederlo dirigere Alba Rohrwacher – un’attrice bravissima – e vedere come ha diretto Francesca Neri ed Ezio Greggio.
Si sa: Pupi è un grande riciclatore che tenta e crea opere d’alto artigianato, e che fa recitare in qualche caso anche persone molto note, ma talvolta poco avvezze a mettersi in gioco fino in fondo nella recitazione.
Francesca Neri è una bella donna dal percorso artistico intrigante. Alba è davvero fantastica, anche se al cinema quando giri te ne accorgi poco, devi avere un’attenzione molto allenata…

Sì, anche perché non sempre si ha l’occasione di avere davanti l’attore principale: ognuno gira la propria scena e alla fine tutto viene montato…

Infatti si recita a bassa voce, quindi, se ti trovi a cinque metri di distanza, già non senti niente, non capisci quale profondità d’animo l’attore può aver donato alla sua interpretazione.
Di Avati e di suo fratello ricordo la grande signorilità e il rispetto per il mio lavoro. I fratelli Avati hanno un rapporto simbiotico, conoscono tutti i ferri del mestiere e potrebbero fare un film ad occhi chiusi, dirigendolo da casa. Questo perché sono capaci di capire come sta andando la scena e se è necessario sono in grado di cambiare le cose al volo. Ti danno l’importanza che ti devono dare per aiutarti a creare la tua interpretazione. Allora anche quella diventa una passeggiata, quando la troupe funziona perché ben diretta. E con loro questo accade. Sono capaci di essere autorevoli e autoritari, anche brutali, quando serve, ma si capisce che quell’atteggiamento è funzionale all’ottenimento della miglior scena possibile.

Parlando invece dei lavori più recenti: com’è stato recitare nella commedia “Ritorno a Miramar” di Alessandro Fullin?

Durante le prove c’è stata una grossa preparazione e tanto rispetto, pertanto siamo arrivati al debutto con il piacere di dare il massimo. In quel caso io ho sostenuto il ruolo di un compassato medico amico dei regnanti, che però è anche un frivolo amate di quella particolare danza andalusa chiamata Sevillana. Memore della mia preparazione danzereccia mi sono messo a studiare questa danza con l’aiuto di un’esperta d’eccezione: la sorprendente coreografa Giusy Monza. Esiste anche un’app che insegna questo ballo! Che mi è stata consigliata da Marzia Postogna (nello spettacolo faceva la parte di Sissi n.d.r.). È stato fantastico! La scena di danza che dovevo fare durava pochi minuti, però in quell’attimo credo che siamo riusciti a restituire lo spirito di questa danza.
Anche in questo caso è stato un incontro di culture, con una conseguente evoluzione. Niente nasce per caso. Non esiste il miracolo: tutto nasce dalla preparazione.
Mi sono divertito molto perché ho potuto sia recitare che danzare, quindi ho unito due arti nello stesso spettacolo.

E Fullin?

Fullin è straordinario! Lavorare con lui è stata una vacanza, perché si lavorava talmente bene, con ironia, con il sorriso sempre sulla bocca, restando comunque concentrati sul pezzo. Andare alle prove era un piacere. Si lavorava faticando, ma con leggerezza.
Ciò che ho potuto notare di Fullin è la sua enorme capacità di stare vicino agli attori e alle attrici, rispettandoli. Ma anche la qualità del suo ascolto.

Perciò non era distaccato…

No, è uno di quei registi che non si arrabbiano, non dicono improperi, non ottengono quello che vogliono con il turpiloquio. Devo dire che il cosiddetto “dream-team” con Fullin c’è stato. Non vedo l’ora di ritornare a lavorare con lui.

Da dottor Mayer, amico della famiglia reale degli Asburgo, ad amico del Barone Revoltella (interpretato da Lorenzo Acquaviva)…

Valentino Pagliei PhNadiaPastorcichSì, Trieste mi sta regalando tanti bei personaggi appartenuti alla sua storia. C’è questa straordinaria storia di Trieste, del suo golfo, che si può apprezzare approfondendo per esempio la biografia del Barone Revoltella. Quando Trieste non era uno dei tanti porti d’Italia, bensì il porto più importante dell’Impero austro-ungarico si è creata un’economia fiorente, grazie al porto franco e ai numerosi traffici commerciali. La città ha potuto godere dell’intraprendenza di persone come il Barone Revoltella, che dal nulla sono diventate ricche e influenti, raggiungendo alti livelli imprenditoriali, realizzando grandi progetti – basti pensare al taglio dell’istmo di Suez.

Il Barone Revoltella ha realizzato tante opere benefiche per questa città; ha pure aperto una scuola di disegno, e siccome non aveva figli, ha lasciato a Trieste questo gioiellino incastonato al centro della città. Sto parlando della sua casa di rappresentanza e della fondazione dedicata all’arte: il palazzo Revoltella, oggi sede del Museo Revoltella, dove si svolge lo spettacolo sul Barone che ho l’onore di recitare regolarmente insieme a Lorenzo Acquaviva. Lo spettacolo è stato portato al successo da Ivan Zerbinati (straordinario interprete teatrale) per la regia di Davide del Degan.
In questo palazzo il Barone si auto-rappresenta con le molte opere d’arte e con le magnifiche sculture di Pietro Magni che ancora adesso incantano. Ci sono gruppi marmorei che sono allegorie, stemmi dedicati alle arti, alla geografia, alle scienze, all’architettura, alla filosofia, e vicino ad essi si trovano quattro busti: quello di Cartesio, di Leibniz, di Galileo e quello di Newton.
Da tutto questo si può intuire che grazie ai meriti del Barone Revoltella, a quello che poteva offrire la città, e allo spirito dei tempi, allora si poteva anche credere nelle “magnifiche sorti e progressive” di un’umanità destinata al miglioramento spirituale e materiale.

Cosa ha pensato di Trieste la prima volta che l’ha vista?

Che è una città per pittori e per scrittori, perché la luce è sempre diversa. È una città con delle
vedute magnifiche, con degli scorci fantastici. È un luogo capace di farti meditare, per creare;
ed è per questo che va bene sia per i pittori che per gli scrittori, ma anche…

Per gli artisti in generale…

Infatti è piena d’artisti, proprio per queste vedute sul mare, evocative e ispiranti. Lo sono anche per tanti scienziati del mondo che, giustamente, qui a Trieste, hanno trovato un luogo ideale per le loro ricerche. Nel mondo e in Italia ci sono posti più belli di questa città, dal punto di vista naturalistico, però Trieste non è da meno. Mi vengono in mente Grignano e la costiera, posti fertili che ispirano la voglia di vivere e di creare…

E poi c’è il mare…

Ci sono questi tramonti sul mare che sono fantastici, proprio per questo è una città per pittori: i
pittori inseguono la qualità della luce. A tal proposito, nella parte nuova del Museo Revoltella ristrutturata da Carlo Scarpa c’è un sorprendente quadro di Giorgio Belloni che ho visto l’altro giorno: rappresenta un paesaggio col sole che insiste sulla campagna umida di pioggia. La luce è gialla, ed è quella di quando “Torna il sereno”. Sembra vero, sembra una fotografia.

Progetti per il futuro?

Ho tanti progetti, soprattutto di nuovi spettacoli. Adesso sto preparando un piccolo ma gustoso lavoro con Zita Fusco, che si intitola “Sìsì, Ottone e la cantina musicale”. È uno spettacolo per bambini, che stiamo scrivendo insieme in questi giorni. Credo che mi darà molte soddisfazioni, perché è un pretesto divertente per insegnare la musica ai bambini. Sarà bello pensare che
l’incontro con la musica e col teatro, per qualcuno di loro, avverrà per la prima volta in questa occasione.

È con il Teatro Ragazzi?

Sì, è con il Teatro Ragazzi de La Contrada.

Sogno nel cassetto?

Quello di scrivere canzoni. Io scrivo dei pensieri che hanno una vaga forma lirico-poetica. Mi piacerebbe trasformare qualcuno di questi in canzone.

Ringrazio l’attore Valentino Pagliei per la stimolante chiacchierata.
Foto di Nadia Pastorcich

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